L’insorgenza di Omicron è stata accompagnata fin dai primi istanti dalla speranza. Accanto alla sua estrema contagiosità, si riteneva infatti che la variante potesse rappresentare una fine della pandemia diversa dalle fini decretate frettolosamente in precedenza, una fine più stabile, seppure al netto degli elementi di imponderabilità che ormai abbiamo imparato essere parte di questo processo (su tutti: la comparsa di altre varianti problematiche). I segnali convergono nel dirci che stiamo abbandonando la fase acuta per entrare in una nuova, più quieta. Al termine dell’ondata il saldo dei morti portati da Omicron sarà comunque elevato, e questa è probabilmente la prima falsa percezione da correggere.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha parlato di mezzo milione di decessi in più, meno accettabili che mai in presenza dei vaccini. Ma è vero che il sistema sanitario ha retto l’urto, e che a metà dicembre questo non era scontato. D’altra parte, fin dall’inizio del Covid nessuna strategia è stata davvero improntata a contenere il numero dei decessi, né da noi né altrove. Dietro la facciata, lo scopo era sempre quello di garantire il funzionamento del sistema, accettando con dolore le vittime.
L’altra percezione da correggere riguarda l’endemicità, un termine che ultimamente si è imposto nel discorso collettivo in maniera bizzarra.
A spettiamo, con trepidazione un po’ sinistra, l’epoca dell’endemicità come se si trattasse del migliore scenario possibile nel lungo termine, quando significa in effetti aggiungere una nuova causa di morte naturale all’elenco delle molte che già esistono. Significa dire che il Covid sarà con noi, anzi tra noi, indefinitamente.
Nel frattempo Omicron ha portato con sé un disagio di tipo diverso da quello dei due anni precedenti, un disagio in prevalenza logistico, che molte famiglie hanno sperimentato soprattutto fra dicembre e gennaio: quarantene e isolamenti, spesso a malapena sintomatici eppure infiniti; congestione delle strutture di testing, inaffidabilità dei test stessi, scuole a singhiozzo, caos. Alla radice del disagio diffuso c’è il fatto che Omicron necessitava di un set di regole diverse da quelle in campo, tutte tarate sul virus originario. Abbiamo vissuto l’ennesima fase strana del periodo pandemico sotto forma di una sovrapposizione di condizioni poco coerenti: l’aumento di allerta proprio quando avevamo raggiunto obiettivi importanti nella vaccinazione; record vertiginosi di contagi giornalieri eppure una relativa stabilità sul fronte ospedaliero (pur sempre più prostrato); situazioni quotidiane ingessate da protocolli anticontagio rigidissimi accanto ad altre di totale deregolamentazione. Un susseguirsi di piccole assurdità, che trasmettono quel senso di disordine tipico degli strascichi delle crisi. Per dirne una, qualche giorno fa in un albergo di Milano ci si poteva assembrare liberamente attorno al buffet della colazione, ma occorreva mettersi i guanti in lattice per riempire il piatto, così sembravamo tutti dei chirurghi attorno al tavolo operatorio, e se per caso ti eri dimenticato lo zucchero, dovevi ricominciare la vestizione da capo. Via via, però, vengono introdotti i correttivi necessari: la riduzione dei tempi di isolamento e quarantena, il cambiamento dei protocolli di testing per uscirne, l’eliminazione dell’obbligo di tampone per il rientro dai Paesi dell’Unione europea. Oggi se ne vanno le mascherine all’aperto e tra non molto, salvo imprevisti e anche se ci sembra inverosimile, toglieremo quelle al chiuso.
Ma la sovrapposizione è durata abbastanza a lungo, complice una certa inerzia del governo e dello stesso Cts. E a un certo punto ha iniziato a farci sentire dissociati. Accanto al sollievo per il decadimento della curva, è montata una specie di nausea generale per ogni discorso che avesse ancora al centro la pandemia. Dal palco di Sanremo, Zalone si è intestato il momento catartico di annunciarne la fine, insieme alla cacciata dei virologi dalla tv. Lo slittamento nel sentire comune è misurabile anche dalle recenti esternazioni di Meloni e Salvini sulle vaccinazioni dei propri figli. Nel farle, hanno colto e rispecchiato fedelmente, com’è loro abitudine, il cambiamento. Serpeggia addirittura l’idea — e sono pronto a scommettere che prenderà presto piede come una forma di revisionismo — che tutto sommato sarebbe bastato aspettare Omicron, senza quell’animosità sulla campagna vaccinale, senza la confusione di green pass e super green pass, senza il bisogno di dividersi. La pandemia si sarebbe risolta da sé. Se questa idea inizierà davvero a circolare, sarà necessario smontarla.
Per ora ci limitiamo a osservare che il dibattito attorno al Covid si è infiacchito, anzi ormai appare sfinito. Ma allora perché le trasmissioni televisive e radiofoniche e i giornali ne sono ancora così pieni? Gli altri argomenti, compresi quelli molto rilevanti come l’elezione del presidente della Repubblica, prendono il centro per un po’ ma stentano, e comunque durano poco. Siamo bloccati in un ossimoro: detestiamo la pandemia e ne vogliamo ancora. Non vogliamo più sentirne e non vogliamo ascoltare altro, se non per distrarci un attimo. Migliora il quadro complessivo, ma noi cerchiamo ancora esperti e ancora più cattiveria nello scontro con gli antivax. Pensare che siano i media a imporre tutto questo, a decidere l’oggetto dell’attenzione controvoglia rispetto al proprio uditorio, è molto ingenuo. I media tornano sul Covid perché noi non riusciamo a staccare gli occhi dal Covid. Continuare a essere spinti verso lo stesso evento è un tipico atteggiamento post-traumatico. Ed è in questo che ci troviamo tutti: in uno stato post-traumatico. Scrivendolo, mi rendo conto che vedere il trauma ovunque è una moda psicologica del nostro tempo, un risvolto del vittimismo dominante, e non vorrei incorrere nella stessa trappola. Ma credo con sincerità che il trauma in questo caso ci sia stato, e che sia stato esteso e profondo.
Abbiamo anche l’impressione, in parte fondata, che questo accada da noi molto più che fuori. Bisogna allora ricordarsi che la storia dell’Italia nella pandemia è unica e resterà tale. Siamo stati noi, sempre con l’eccezione della Cina, troppo diversa per confrontarci, i primi a essere investiti, nell’impreparazione e nell’incredulità. L’urto, anche se poi i numeri si sono tristemente omogenizzati, è stato diverso. Dunque è stato diverso il trauma, e lo è il post.
Ormai ognuno di noi ha avuto una sua personale e articolata traiettoria nella pandemia. Ciò che le accomuna è che nessuna di queste traiettorie è stata felice. Perdita di persone care, riscrittura dei rapporti, insicurezza lavorativa ed economica, un rilascio anomalo e prolungato di paura, aspetti retrogradi del Paese improvvisamente accentuati, divisione, percezione di un presente più violento, un sospetto invincibile nei confronti del futuro. La sintomatologia è varia e l’ultimo periodo, seppure con meno morti di quanti potevano essercene e con una malattia generalmente più leggera, non ha contribuito meno dei precedenti ad aggravare le nostre condizioni mentali (la rinuncia del governo al bonus psicologo è stata molto sbagliata in questo panorama). Se ancora non riusciamo a staccare gli occhi dalla pandemia, non dovremmo rimproverarci troppo. Quello che abbiamo attraversato vale molto più di una scrollata di spalle. C’è un vuoto di senso che serviranno impegno, energie e soprattutto tempo per riempire. Per il momento stiamo ancora cercando una risposta a tutto il malessere accumulato e, non trovandola, ci accontentiamo di vederlo riflesso simile negli altri, per sentirci un po’ meno soli.
Paolo Giordano
Corriere della sera
11 Febbraio 2022