Dal business del Dna fetale alla paura dei ginecologi di intervenire: così l’addio alla maternità resta l’unica risposta.
Impossibile, quantificare.
Un registro delle interruzioni di gravidanza da diagnosi prenatale non esiste. Ci sono, però, i dati delle Relazioni annuali al Parlamento del ministero della Salute sull’applicazione della legge 194, che ogni anno contano gli aborti effettuati nel nostro Paese e li dividono in due grandi gruppi: quelli precedenti alle 12 settimane di gestazione (che di solito comprendono le gravidanze indesiderate) e quelle dopo le 12 settimane (gravidanze inizialmente desiderate che si decide di interrompere in seguito a esiti di diagnosi prenatale o per patologie materne). In questo secondo gruppo nel 2016 – è il dato più recente fornito dal ministero – si sono contati 4.500 aborti, pari al 5,3% del totale (nel 2012 erano il 3,8%). In numeri assoluti, moltissimi. E in costante aumento.
Ma cosa succede, quando una coppia riceve una diagnosi prenatale? «Il più delle volte, purtroppo, succede qualcosa ancora prima. Viene disposta, cioè, una diagnosi prenatale senza che ce ne sia effettivo bisogno, senza sapere che cosa vogliamo chiedere alla diagnosi, che risposta cerchiamo – spiega Andrea Natale, ginecologo alla clinica Macedonio Melloni di Milano –. E questo, lo ammetto, depone a sfavore della mia categoria».
La diagnosi prenatale infatti non dovrebbe essere uno screening: «Troppi medici oggi fanno l’errore di prescriverla a tutti, un po’ come se fosse l’esame dell’emoglobina». Ed ecco le coppie, sempre più spesso, trovarsi in mano un esame a cui non sono state preparate, di cui non comprendono esattamente i risultati e per i cui esiti si spaventano moltissimo: «La gravidanza d’altronde è già un periodo di stress fortissimo, in cui le attese sono altissime – continua Natale –. È evidente che se di fronte all’esito di queste diagnosi lasciamo anche le coppie senza sostegno, senza strumenti di interpretazione può vincere solo la paura. E la paura è l’aborto».
Un atteggiamento, quello del “non interventismo” da parte dei ginecologi, «rinforzato anche da sentenze gravissime come quelle che abbiamo visto in passato sulle colpe del ginecologo davanti alla nascita di un bimbo disabile» continua Natale. Tornando con la mente al caso clamoroso della bimba nata a Mantova con la sindrome di Down «per colpa», stabilì la Cassazione nel 2015, proprio del ginecologo. Le diagnosi, nel frattempo, sono sempre più facili: gli ecografi permettono di vedere tutto quello che prima non si vedeva, i test non invasivi e in particolare quello sul Dna fetale sono alla portata di tanti.
Un business, quest’ultimo, da un miliardo di dollari nel mondo e che in Italia è approdato nel 2015 accompagnato da un documento ufficiale delle autorità sanitarie, vagliato da esperti e bioeticisti, in cui sostanzialmente si ribadiva lo stesso invito alla prudenza: «La facilità di accesso al test mediante un prelievo ematico non deve rappresentare un incentivo al ricorso inappropriato alle indagini prenatali» recitavano le Linee guida ministeriali. Il test invece nel corso del tempo è diventato prassi comune, con la promessa d’essere sempre più preciso, sempre più precoce, d’individuare sempre più imperfezioni. In particolare la trisomia 21, il vero grande “bersaglio” per cui «i dati snocciolati dal collega di Treviso – continua Natale – non mi stupiscono affatto.
La diagnosi prenatale d’altronde è fatta quasi nella totalità dei casi per escludere quel difetto ed è prassi in tutta Italia, non solo a Treviso e nemmeno solo a Milano, che chi scopre la sindrome di Down decida per l’aborto. Anche nel nostro ospedale di bimbi Down, praticamente, non ne nascono più». E qui entra l’altro aspetto di solitudine delle coppie: non solo quella davanti al dato scientifico, ma anche quella culturale. «Manca informazione, su che cosa sia la sindrome di Down e su quali siano le possibilità, oltre che le difficoltà, per una famiglia di accogliere un bambino che ne è affetto» spiega Antonella Falugiani, presidente del Coordinamento Nazionale Associazioni delle Persone con Sindrome di Down (CoorDown). «Già soltanto rispetto a 10 anni fa se questi piccoli vengono accolti in un contesto familiare preparato, e sostenuto correttamente, le loro possibilità aumentano in maniera impressionante».
Di più, a dire il vero: la scienza sta facendo passi avanti straordinari anche sul trattamento della trisomia 21 durante la gestazione, con ricerche che dimostrano come attraverso la somministrazione di determinate molecole si possa addirittura ridurre il danno neuro-cognitivo che si sviluppa nel bambino tra le 12 e le 21 settimane. Perché la diagnosi prenatale, prima di tutto, dovrebbe essere lo strumento al servizio della terapia fetale, non dell’aborto.
Viviana Daloiso
Avvenire.it, 11 marzo 2018