La contemporaneità, o «seconda modernità» come alcuni osservatori la chiamano, ci sta abituando a notizie tremende che non vorremmo mai sentire; soprattutto perché non riguardano terre lontane e culture estranee, ma ‘l’ inquilino della porta accanto’, coppie, famiglie che potrebbero essere quelle dei nostri vicini di casa.
Non c’ è giorno che i notiziari non raccontino l’ ennesimo femminicidio. La spiegazione offertaci chiama spesso in causa l’ imponderabile: il raptus è la categoria evocata da giornalisti e commentatori per spiegare l’ evento funesto. La coppia attraversava un periodo difficile, lui era sotto stress, è stato colto da raptus e ha massacrato la sua donna. Sono frequenti in questo caso le letture di parte femminista, che tendono a ricondurre la spiegazione al ruolo di sudditanza che ancora la donna soffre in molte aree del nostro Paese, malgrado una emancipazione che sembrerebbe porla a riparo da violenze di ogni tipo. È un fatto: indipendentemente da stratificazioni sociali e geografiche, permangono ampie nicchie di cultura patriarcale nel nostro Paese in cui la donna continua a essere percepita come secondo sesso, come sesso gregario, quasi come una ‘pertinenza’ dell’ uomo. Da questo punto di vista il processo di emancipazione nel modo di vivere, vestire, relazionarsi che la donna ha condotto negli ultimi decenni ha giovato alla sua causa, ma inevitabilmente stressato ancora di più la situazione, ponendo la donna nelle condizione di rivendicare un’ indipendenza che l’ uomo patriarcale non vuole accettare. L’ uomo portatore di questo modello culturale, di questa costellazione valoriale, nella sua versione più estrema considera la donna come qualcuno che deve compiacerlo in tutto e per tutto, soddisfarlo in ogni suo desiderio. Glielo hanno trasmesso legioni di madri e padri che hanno costruito nei secoli questo ‘ pattern culturale’; un modello che sopravvive ben vigoroso malgrado le apparenze di parità. Tuttavia, questo tipo di analisi, ampiamente condivisibile, non coglie un aspetto meno appariscente, ma non per questo meno incisivo, della questione. Stiamo parlando di quello spaesamento, di quello smarrimento antropologico che attanaglia l’ uomo contemporaneo come una morsa soffocante. A causa dei grandi processi di cambiamento della nostra epoca (la crescita esponenziale della tecnologia e le migrazioni in corso, per citarne solo due) l’ uomo è disorientato, indebolito. Di fronte a un’ apparente ricchezza di contatti e di conoscenza, l’ uomo affoga in un relativismo che non lascia scampo, in cui l’ ultima formuletta new age pesa quanto una religione bimillenaria, in cui l’ opinione di un Nobel per la medicina viene contrastata dalla furbata dell’ ultimo millantatore. Egli è lasciato sostanzialmente solo con sé stesso, anche se al centro di un’ apparente, cospicua rete di contatti, virtuali e no. L’ uomo non sa più chi è, perché sta al mondo, qual è stata la sua storia, qual è lo spazio dei desideri e quello del limite, qual è il suo posto nel creato e la sua identità nella società. Perché se tutto è relativo, la mia vita può rappresentare una grande ricchezza, ma anche essere niente. Oltretutto una mentalità sostanzialmente corporea, materialistica dice all’ uomo che egli vale se ha beni materiali, denaro, successo, una donna che lo venera. E qui sta il punto: la donna che ha accanto, del cui amore si può vantare , diventa il riempitivo di un vuoto assoluto, una ‘ diga rosa ‘all’ avanzare del Nulla e del Non Senso. Paradossalmente, si potrebbe sostenere che le donne che soccombono a mariti violenti, sono donne che hanno sposato uomini fragili, con un’ identità inconsistente costruita sulla sabbia di un amore magari giovanile e inconsapevole, poi sfumato nella noia e nelle incomprensioni dei giorni: ‘Se mi lasci, io non sono più niente – è come dicesse il violento – perché la mia anima non ha altro che te’. Sotto il modello maschilista del ‘tu non vai da nessuna parte senza il mio volere’ c’ è probabilmente un uomo solo, sopraffatto dall’ angoscia esistenziale di non sentirsi nessuno, di non sentirsi un vincente; un uomo che perde, oltre al piacere di una donna accanto, l’ unica cosa che lo fa sentire vivo e importante nel vuoto senza scampo di una vita percepita come priva di senso. Ma c’ è di più: l’ humus culturale nel quale viviamo è segnato da decenni dal culto dell’ eccesso: nessuno si preoccupa di non mostrare rabbia furibonda, commozione fino alle lacrime, insulti e cattiverie perfide. Un’ emotività si potrebbe dire adolescenziale possiede ormai troppe persone, che sono abituate a non controllarsi più nel manifestare rabbia, angoscia, amore, attrazione fisica, odio e via dicendo. Quel fascio di umanissime emozioni, un tempo controllate, calibrate, diventate daimon onnipotente che possiede un uomo disgraziatamente travolgibile. Non si tratta certo di giustificare gli uomini che aggrediscono, ma di capire l’ infinita ansia dell’ uomo moderno, cui le donne in generale soccombono meno perché portatrici di senso in quanto donne; in quanto, direbbero le antropologhe, « natura naturans ». Se le donne vogliono combattere davvero la violenza, debbono riscoprirsi maestre: magari, per cominciare, congiungendo le mani dei bambini in una preghiera che li faccia creature e non la riedizione in formato ridotto di un ateo senza immaginazione, senza speranza e senza pace.
di Elisa Manna
Avvenire.it, 28/03/2018