Un nuovo farmaco riduce sensibilmente i tempi di guarigione, ma adesso la sfida è quella di portare alla luce il sommerso.
La lotta per l’eradicazione dell’epatite C va avanti e si arricchisce di una nuova arma: si tratta di Maviret, un farmaco che riesce a sconfiggere il virus in sole 8 settimane. La terapia è già disponibile nei centri pubblici nelle diverse unità operative complesse degli ospedali, di infettivologia, epatologia e medicina interna. Ma parallelamente allo sviluppo di terapie sempre più efficaci c’è un ulteriore aspetto che necessita della massima attenzione: portare alla luce il sommerso, ovvero le persone che non sanno di aver contratto l’epatite C o che non si sono volute sinora curare. “La precedente terapia, in parte iniettiva, durava molto più a lungo, dai 6 ai 12 mesi, e aveva un risultato di successo che si aggirava attorno al 45 per cento – spiega il professor Giovanni Di Perri, ordinario di malattie infettive dell’Università di Torino – oggi, con i recenti risultati, si pretende di superare il 95 per cento viste le caratteristiche di potenza, affidabilità, tollerabilità e facilità di assunzione della terapia disponibile. Oggi la stessa spesa per ogni singolo trattamento è scesa al di sotto del precedente trattamento, assai più fallace, di 3-4 anni fa”.
L’epatite C in Italia. L’epatite cronica da virus C, o più semplicemente epatite C o Hcv, è una malattia che, in virtù della sua cronicità, provoca un processo che va spontaneamente avanti nel tempo fino a compromettere strutturalmente e funzionalmente il fegato. Si stima che in Italia ci siano circa 300 mila pazienti diagnosticati con Epatite C e un numero imprecisato di persone inconsapevoli di aver contratto l’infezione, per un totale stimato che va oltre il milione di persone. Negli ultimi tre anni è profondamente mutato lo scenario della terapia delle malattie epatiche da virus C e, con la disponibilità dei nuovi farmaci ad azione antivirale diretta, è oggi possibile curare la maggior parte dei pazienti a prescindere dallo stadio della malattia. Ad oggi sono stati trattati in totale 122.090 pazienti. A livello nazionale sono stati realizzati due importanti interventi al fine di realizzare il ‘Piano di Eradicazione Hcv’, che prevede l’arruolamento di 80 mila pazienti all’anno, per 3 anni. Il primo è il fondo per i farmaci innovativi, 500 milioni di euro annui, precedentemente istituito per il biennio 2015-2016, dei quali la maggior parte è dedicata a farmaci per la cura dell’Hcv. Il secondo riguarda l’ampliamento dei criteri di arruolamento: se fino a quel momento solo i pazienti più gravi, gli F3 ed F4, potevano beneficiare della cura con i nuovi farmaci antivirali diretti, da aprile 2017 tutti i pazienti affetti dal virus Hcv possono accedere alle cure. Nonostante ci siano farmaci efficaci e fondi disponibili, ad oggi il ritmo di arruolamento è il seguente: da gennaio 2017 a fine marzo 2017 sono stati trattati circa 7.337 pazienti; da marzo a dicembre 2017 sono stati trattati 39.959 pazienti; da gennaio 2018 al 5 marzo 2018 sono stati trattati 12.662 nuovi pazienti.
Il nuovo farmaco. Maviret ha già ottenuto la rimborsabilità dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) realizza due forme di terapia, che agiscono su tutti i genotipi circolanti di epatite C e che distruggono il virus in 2 o 3 mesi, a seconda della presenza o meno di cirrosi o di specifici genotipi virali. Con questa cura di 2 mesi si può dunque eradicare in maniera definitiva l’infezione dal corpo umano; ciò differisce dal concetto di eliminazione, che si riferisce a un tema di salute pubblica, per cui mediante le terapie dei singoli è possibile togliere definitivamente l’infezione dalla nostra società. In questo caso, si parte dall’eradicazione a livello individuale, ma l’ambizioso progetto destinato a compiersi in prospettiva è quello dell’eliminazione dell’infezione dalla popolazione, con il virus che non sarebbe più circolante. “Quella dei farmaci contro l’epatite C è stata un’evoluzione rapidissima, resa possibile da alcune realizzazioni di scienza di base tipo la possibilità di simulare la replicazione virale in un sistema di cellule in vitro – spiega Di Perri – Sono state individuate in successione tre categorie di farmaci che rappresentano tre tappe diverse di inibizione del virus. Nel corso di questa evoluzione si è arrivati a sviluppare e disporre di molecole talmente potenti che con la nuova terapia la risposta è aumentata dal 45 per cento ad oltre il 95 per cento, con tempi ridotti ad appena 8 settimane. È un nuovo successo del genio umano. Un’evoluzione straordinaria, legata peraltro a farmaci molto più tollerati dei precedenti: grazie alla qualità e alla durata ridotta della terapia, gli effetti collaterali sono quasi totalmente assenti”.
Il problema del sommerso. Nonostante il processo di lotta all’Hcv abbia raggiunto livelli sorprendenti, resta il problema del sommerso. Sono in corso iniziative di vario genere per coinvolgere anche chi ignora di essere affetto da questa patologia o chi la sottovaluta. Come premessa, bisogna ricordare che ci sono state due linee epidemiologiche che hanno portato alla diffusione dell’infezione. La prima generazione è quella dei figli del baby boom, dove l’uso promiscuo di rasoi, l’assenza di materiale monouso e altri piccoli gesti hanno portato a una prima ondata della diffusione del virus. Dagli anni ’70, il metodo attraverso cui è prevalsa la trasmissione è stato quello della tossicodipendenza per via venosa. Questa ondata epidemica si è ridotta dagli anni ’90, quando il mercato delle droghe ha preso altre vie, come le pasticche. Da rilevare inoltre la trasmissione sessuale dell’infezione, al momento distribuita geograficamente soprattutto in grandi centri urbani occidentali e legata soprattutto a contesti estremi in cui coesiste anche l’uso di svariate molecole stimolanti. “Questi due filoni costituiscono le principali direzioni in cui cerchiamo il sommerso – afferma Di Perri – A questo proposito, facciamo appello alle associazioni dei pazienti e lavoriamo di concerto con la rete dei centri per le tossicodipendenze che facilitano gli screening”. È importante portare alla luce l’infezione anche in questi casi più reconditi. Il problema, infatti, non consiste solamente nello star male o nel morire per un’epatite cronica che può evolvere in fibrosi, cirrosi o in altre patologie del fegato, come l’epatocarcinoma. “L’epatite C comporta un maggior rischio di contrarre malattie cardiovascolari e malattie metaboliche, in particolare il diabete – aggiunge Di Perri – Quindi, in linea più generale, si tratta di liberarsi non solo di un’infezione del fegato, ma di un’infezione cronica sistemica che ha effetti anche su parametri vitali, su organi e sistemi, che in ultima analisi accorcia la vita”.
Matilde Scuderi
22 Marzo 2018
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