Dopo più di un anno dalla fine dei combattimenti, Aleppo è ancora una città semidistrutta e dove la maggior parte delle famiglie non torna. Ce ne parla Mons. GEORGES ABOU-KHAZEN.
E’ il 19 luglio 2012 quando le milizie dei ribelli anti-Assad, gran parte delle quali costituite da gruppi jihadisti, attaccano la città di Aleppo, dopo Damasco la più importante e abitata della Siria. L’attacco porta in poche settimane alla sua divisione in due parti: la zona est in mano ai ribelli e quella ovest alle truppe governative. Sarà l’inizio di una delle battaglie più sanguinose della storia moderna, terminata ufficialmente solo il 22 dicembre 2016, quando l’ultimo convoglio di ribelli che si sono arresi lascia la città. L’altissimo numero di morti tra combattenti e soprattutto civili è stimato in 31mila vittime, tanto che Aleppo viene ribattezzata “la Stalingrado della Siria”. Alla fine dei combattimenti la città è praticamente rasa al suolo e quasi tutti gli abitanti che non sono morti sono fuggiti. Monsignor Georges Abou-Khazen, della Custodia di Terra Santa e Vicario apostolico di Aleppo, ci dice come la situazione sia ancora difficile e di come l’abbandono da parte dei cristiani sia ancora una triste realtà: “La nostra Settimana Santa dura ormai da 7 anni, ma la resurrezione di Gesù ci si assicura che il nostro destino è nelle mani di Dio, non degli uomini.
Monsignore, è passato più di un anno dalla fine della battaglia, come è oggi la situazione ad Aleppo?
Ringraziando Dio, da quando Aleppo è stata liberata sono finiti i combattimenti, ma siamo ancora in una situazione di emergenza più di un anno dopo.
In particolare?
La gran parte delle abitazioni è ancora distrutta, se vogliamo che la gente torni bisogna dare loro un’abitazione e un lavoro che adesso manca quasi del tutto.
Ad Aleppo c’era una delle più numerose comunità cristiane: qualcuno è tornato dalla fine dei combattimenti?
Alcune famiglie sono tornate, ma purtroppo allo stesso tempo ce ne sono altre che vogliono andare via, qua manca il lavoro, mancano le case per un’esistenza dignitosa.
Dal punto di vista degli aiuti umanitari invece?
Di aiuti ne arrivano grazie ai nostri benefattori e a organizzazione ecclesiastiche. In questo modo possiamo aiutare quasi tutte le persone che hanno bisogno: un pacco alimentare al mese, avere degli educatori nelle scuole rimaste, e soprattutto medicinali e anche cure per chi soffre. Cerchiamo in ogni modo di venire incontro ai bisogni della gente. Ringrazio la Caritas Internazionale, l’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre e tutti gli altri che ci permettono di sopravvivere.
Siamo giunti alla Pasqua dopo la Settimana Santa: come si vive questo evento, in una città martire che ha visto morte e distruzione?
E’ una Settimana Santa che dura da 7 anni, Aleppo è una vera città martire. Adesso la paura è che la Siria venga divisa: ci sono i curdi, i turchi, gli americani, gli iraniani che vogliono farla a pezzi è questo sarebbe un danno gravissimo. La Siria era un bel mosaico di etnie e religioni diverse che vivevano in pace, adesso questo mosaico lo stanno facendo a pezzi e la colpa è anche delle potenze occidentali. Abbiamo paura che invece dell’antico mosaico la Siria diventi di un colore solo, il nero.
Per i cristiani cosa significherebbe?
Per i cristiani rimane sempre la speranza, soprattutto grazie alla Resurrezione di nostro Signore che è il cemento della nostra fede. Ma certamente siamo rimasti in pochi, la comunità cristiana sparsa per tutta la nazione nel corso dei secoli è stata quella che ha intessuto e tenuto insieme i rapporti fra le varie religioni e adesso rischia di scomparire. Noi preghiamo, sappiamo che il nostro destino è nelle mani di Dio e non degli uomini.
La resurrezione è il segno che questo è possibile, è così?
Certo, questa è la nostra ferma speranza, è la nostra fede. Tutta la Siria aspetta la resurrezione. Lo testimoniano quei cristiani che in piena e libera coscienza hanno deciso di rimanere ad Aleppo.
Il Sussidiario.net, 02 aprile 2018