La Chiesa cattolica riconoscerà ‘beati’ i monaci algerini. Un “appello a tutta l’umanità”, perché il loro martirio è quanto mai attuale in un’Europa in cui l’islam miete martiri e ci rammenta che la missione non è solo nelle estreme regioni, ma anche a casa nostra.
Già a febbraio del ’92 il leader del Fronte Nazionale Islamico sudanese lanciava la sua previsione, “le autorità di Algeri si trovano di fronte al movimento islamico più diffuso e di massa del mondo, […] non potranno contenerlo”. Erano gli anni della rivoluzione islamica in Algeria che metteva in atto il suo personale processo di reislamizzazione.
All’alba del 27 marzo 1996, le agenzie di stampa italiane battevano ambigui comunicati, asettici e poco precisi. Occorreva informare che “sette monaci trappisti francesi [erano] stati rapiti nel loro monastero di Tibihirine situato nell’Algeria meridionale. […] Le forze di sicurezza hanno dato subito inizio alle ricerche e temono si tratti dell’opera di un gruppo di estremisti islamici. Secondo quanto ha dichiarato il ministero degli Esteri francese si tratterebbe di un atto di rappresaglia. I membri dell’ordine dei trappisti, che ha 332 anni di storia, rispettano il voto del silenzio, si dedicano esclusivamente alle preghiere e lavorano tra i poveri”. Il 30 maggio dello stesso anno ancora qualche comunicato annunciava la morte dei sette monaci per mano di fantomatici “estremisti” – che altro non erano che veri islamisti.
Circa una ventina erano gli uomini armati che irruppero nel monastero perché il canto della preghiera cristiana nemmeno eventualmente potesse sovrastare quella scansione in lingua araba – che crea degli stati di quasi trance – che è il verso dei muezzin o la recitazione delle preghiere musulmane.
Non si è mai saputo fino in fondo cosa dovettero subire i monaci, i loro corpi non furono mai trovati. In compenso sparsero le loro teste sul prato dinanzi il monastero. Il disprezzo, anche del loro silenzio, è di sempre e sarà per sempre. I monaci sapevano bene della situazione di pericolo in cui versavano le loro vite, ma decisero di rimanere fedeli alla loro missione.
‘Al-Muwatta’, l’opera più famosa dell’imam di Medina, Malik Ibn Anas (710-795), non induce a dubbi di alcuna natura: “Tu vedrai delle persone che hanno la sommità del capo rasato [in riferimento alla chierica dei monaci, ndr], uccidili colpendoli sulla sommità della testa”. L’uccisione dei monaci cristiani e degli apostati è codificata e grida biasimo anche dagli scaffali delle librerie occidentali.
Ma l’islam non può silenziare l’eco e il valore di vite cancellate a causa dell’odium fidei. La voce dei monaci di Tibihirine non si è spenta nella primavera del 1996 e in questi giorni leva il suo canto in maniera particolare. In quella drammatica primavera di vent’anni fa vennero uccisi altri dodici religiosi, e la notizia, infatti, che ufficializza la volontà della Chiesa cattolica di riconoscere ‘beati’ i protagonisti di quel sacrificio, è un “appello a tutta l’umanità”.
E soprattutto all’Occidente in balia della nuova islamizzazione, e a quei monaci che ancora vivono sul posto con tutte le difficoltà che la convivenza con l’islam comporta. Il loro martirio è la testimonianza di un amore “fino alla fine”, perché il martirio include sempre il perdono. E se a oltre vent’anni di distanza l’umanità torna a parlarne non si tratta di un mero sguardo verso il passato.
Il decennio nero, come è nero il velo con cui l’islam ha coperto il capo delle sue donne, non ha prodotto certo solo queste vittime. Il sangue di quella violenza brilla ancora su quei marciapiedi.
Insieme ai nostri monaci sono stati uccisi anche imam che si sono rifiutati di firmare fatwa contro chiunque provasse a sottrarsi alla furia islamista, e con loro giornalisti o intellettuali che osarono denunciare una religione in nome della quale si va in paradiso uccidendo.
Ma in questa lista troppo lunga di vittime della violenza, i nostri diciannove fratelli e sorelle occupano un posto speciale. Hanno donato la loro vita per fedeltà al Vangelo. Nel momento del pericolo, hanno scelto di restare. E la loro memoria è stata fissata anche in Francia: una piazza con un giardino verde – come i campi intorno al monastero trappista sulle montagne dell’Atlante, in Algeria – è stata intitolata ai monaci di Tibihirine. In una Francia forse più secolarizzata che mai, una piazza in ricordo dei sette religiosi rapiti e poi uccisi, è diventata una testimonianza tra le più significative del martirio del nostro tempo.
Il 30 maggio 2016, nel giorno del ventennale della conferma della loro morte, quando i loro feretri vennero riempiti delle sole teste, si è tenuta l’inaugurazione. Ma a rendere particolare la scelta di Parigi è un ulteriore dettaglio. La piazza scelta per onorare i monaci di Tibihirine è quella davanti alla parrocchia di Saint Ambroise, che si trova nell’XI arrondissement: proprio in uno dei due quartieri, quindi, sfregiati il 13 novembre dagli attacchi islamisti al cuore della Francia. La furia islamica non ha soluzione di continuità.
Dalla piazza alla beatificazione passa il tempo del segno indelebile anche nel cuore di chi non vuole sentire l’eco della cristianità. Le radici cristiane, con questi gesti così profondi, ritrovano vigore perché, come recita un vecchio adagio patristico, nel “sangue dei martiri [c’è] il seme dei cristiani”. Perché il martirio di quei monaci è quanto mai attuale in un’Europa in cui l’islam miete martiri inconsapevoli e ci rammenta che la missione non è solo nelle estreme regioni, ma anche a casa nostra.
Lorenza Formicola
La Nuova Bussola Quotidiano, 31 marzo 2018