1) Bene e male in senso ontologico
Per affrontare il tema che mi è stato affidato occorre innanzitutto intendersi sulla distinzione tra bene e male. Il bene è nella sua definizione più generica tutto il desiderabile in quanto perfezionatore della natura umana. Il bene è nella sua etimologia ciò che rende beati (la radice indoeuropea DVE-). Quando qualcosa viene riconosciuto come meritevole o degno di stima si dice che questo è un bene. Si deve al cristianesimo l’aver superato il pensiero greco, affermando la bontà di tutto ciò che esiste. Come afferma Agostino, tutto ciò che esiste, in quanto è voluto da Dio, è ontologicamente buono.
Il male è, invece, semplice privazione di un bene dovuto. Si tratta della corruzione di qualcosa che vede interrotto violentemente il suo sviluppo, pur essendo indirizzato ad altro. Il male, quindi, non è la semplice limitazione di qualcosa, per la quale diciamo che x non è y.
Bene e male non sono propriamente dei contrari. Affinché ci siano i contrari si deve dare tra essi una perfezione comune, che non c’è. Bene e male si oppongono rispettivamente come possesso e privazione (come ad es. la luce e le tenebre), per questo non si oppongono come contrari in senso proprio (come ad es. il bianco e il nero che hanno in comune la perfezione del colore).
Da queste prime precisazioni si comprende che, se il bene è il desiderabile, il male è il non-desiderabile. Tutto ciò che è male, in quanto male, non può essere oggetto di desiderio da parte di nessuno.
2) Analisi dell’atto umano
Venendo alla distinzione tra bene e male sul piano morale, possiamo cominciare analizzando la struttura dell’agire umano, poiché è da essa che si può successivamente desumere la qualità morale o immorale di una certa azione. Quando parliamo di agire umano moralmente rilevante, facciamo riferimento ad azioni volontarie, nelle quali è in gioco la libertà della persona.
a) Il contenuto d’azione – Quello che Tommaso d’Aquino, riprendendo Aristotele, chiama “atto umano” – distinguendolo dal semplice “atto dell’uomo” – è quell’atto che l’uomo sceglie liberamente di compiere. La morale si occupa di questo tipo di atti. L’atto umano è un “agire” nel senso di spingere e sollevare (agere) e non semplicemente un “fare” (facere). Nell’atto umano un certo contenuto (un facere) viene sollevato verso un certo fine. In altri termini, nell’atto umano ciò che si fa, il contenuto dell’azione, ha un senso, un fine.
Il contenuto dell’azione è quello che Tommaso d’Aquino chiama “oggetto dell’azione” (objectum actionis). Non si tratta di un oggetto fisico (come, ad esempio, una mela) e non è nemmeno l’azione intesa nel suo semplice svolgersi fisico o anatomico-fisiologico (come, ad esempio, il mangiare la mela). Si tratta, infatti, di considerare l’oggetto nella sua integralità, secondo tutte le sue dimensioni, quindi anche e soprattutto in riferimento alla libertà di colui che agisce. L’oggetto d’azione è individuabile rispondendo alla domanda: “che cosa sto facendo?” o “che cosa stai facendo?”. Rispondere a questa domanda costringe a far emergere l’intenzione con la quale si sta facendo qualcosa. L’intenzione, tra l’altro, va a modificare anche il modo in cui si compie l’azione.
Se è vero, come abbiamo detto prima, che ogni cosa che esiste è buona, non è detto che sia adeguato il modo in cui si utilizza qualcosa o si fruisce di qualcuno. La forma dell’azione concorre a qualificare il volto della persona che agisce. L’uomo si forma per come vive; quindi la domanda “che cosa sto facendo?” può essere ritradotta in questa: “chi sto scegliendo di essere?”.
b) Le circostanze – Per rispondere alla domanda “che cosa sto facendo?” occorre considerare anche le circostanze. Tommaso spiega che l’approfondimento delle circostanze nelle quali avviene l’azione è potenzialmente infinito. Qualunque realtà nella quale la mia ragione si imbatte può essere, infatti, conosciuta secondo aspetti potenzialmente infiniti. Le circostanze specificano l’oggetto d’azione e per questo devono sempre essere considerate. Luogo, tempo, relazione sono tutti esempi di circostanze. Se rubo in chiesa a rigore commetto un sacrilegio, ma se non conosco assolutamente il diritto canonico, sto semplicemente rubando. Se soccorro una persona che ho visto star male due ore prima è chiaro che non la sto propriamente soccorrendo, ma sto cercando di rimediare a un atto di omissione. Se abbraccio una donna in un certo modo, ma quella donna è la moglie di qualcuno, è chiaro che sto iniziando un adulterio e non sto soltando abbracciando una donna.
Anche le conseguenze di un atto possono essere considerate in qualche modo circostanze. Quando le conseguenze sono volute o anche accettate come possibili determinano l’agire umano che ad esse si conforma. Si pensi al problema della fecondità del rapporto sessuale.
c) Il fine – è l’intenzione del nostro agire e si individua rispondendo alla domanda: “a quale scopo faccio questo, a che cosa voglio che conduca quel che sto facendo?”.
Questi tre aspetti sono stati separati per motivi di analisi, ma bisogna considerare che nella concretezza dell’azione essi si trovano costantemente intrecciati.
Bisogna poi considerare che nessun contenuto d’azione può essere scelto dall’uomo come fine a se stesso, ma sempre come strada a un fine ulteriore che è voluto per se stesso e in vista del quale si vuole tutto il resto. Si tratta di quello che Aristotele chiama “il bene propriamente umano” o “felicità”. L’uomo, in tutto ciò che fa, è apertura al bene in quanto tale che è il fine ultimo di ogni azione, verso il quale si indirizzano tutti gli altri fini intermedi. Le scelte che noi compiamo seguendo i fini intermedi concorrono a farci rimanere o a farci deviare dal cammino verso il bene. Per questo, per caratterizzare il cammino morale non è sufficiente la cosiddetta “opzione fondamentale”, ma occorre che essa si manifesti anche nelle scelte particolari, giorno per giorno.
Questi fini intermedi non sono i mezzi. Il mezzo è intercambiabile, mentre il fine dell’azione non lo è. Ogni fine particolare concorre a modo proprio a dare forma all’azione, tanto che se si scegliesse un fine diverso anche l’azione muterebbe.
3) Il bonum honestum
Il bene morale, il bene proprio dell’uomo, non è il bene ontologico, ma è il bene che la tradizione chiama bonum honestum, cioè il bene che è orientato e ordinato verso il bene in quanto tale. Honestum riguarda la bellezza ordinata alla realizzazione del fine ultimo.
Il male morale, contrariamente al bene morale, si configura come un tentativo di distruggere l’ordine, deformando, quindi, se stessi. Come accade per il male ontologico, anche il male morale è parassita del bene. Esso è una privazione di ciò che è dovuto alla natura personale dell’uomo. Il male morale concorrerà comunque ad affermare dei beni ontologici ed eventualmente potrà realizzarne anche dei nuovi, proprio perché l’agire umano è sempre anche un fare, cioè un intervenire sul mondo. A questo proposito, Agostino scrive, commentando San Paolo, che certamente “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, anche i peccati” (De corruptione et gratia, cap. 1).
Un male morale assoluto non può dunque esistere, come non può esistere un male ontologico assoluto. Dico questo perché anche nell’azione malvagia vi è sempre la componente del desiderio che non può venir meno senza che venga meno l’uomo stesso.
Il male morale disfa la realtà, ma non è in grado di ricreare la realtà conferendole un nuovo senso. Colui che compie il male cerca di realizzare l’impossibile, facendo in modo che qualcosa sia diverso da quello che è, ma senza riuscirci. Il male, dunque, non può essere mai voluto, perché significherebbe volere ultimamento l’impossibile, cioè volere niente.
Per questo Tommaso spiega che la legge morale naturale può essere condensata in un unico precetto “bonum prosequendum, malum vitandum” (la cosiddetta sinderesi). Questo precetto svolge nel campo morale ciò che il principio di non-contraddizione svolge nel campo teoretico. Le scelte sono sempre da riferire a questo precetto. Affinché non ci si contraddica praticamente occorre vivere ogni scelta come un passo del cammino verso il bene. Ogni bene particolare deve essere scelto in quanto è in funzione del bene come tale. Quando, invece, il bene particolare è perseguito come se fosse il bene in quanto tale, l’uomo contraddice nella pratica la propria natura, deformando se stesso.
4) Il n. 73 di Evangelium vitae
In base a ciò che si è detto sulla distinzione tra bene e male e sulla struttura dell’azione umana si può concludere che il male non può mai essere oggetto di scelta, nemmeno quando si configuri come un male minore rispetto a mali considerati maggiori. Scegliere il male o proporre il male attraverso proposte legislative o di altro tipo è sempre contrario al bene proprio dell’uomo e, quindi, anche al bene comune. Diversa, invece, è la situazione in cui le circostanze sono tali da non consentire di compiere tutto il bene che si desiderebbe compiere, poiché esse pongono un impedimento tale da rendere possibile soltanto la realizzazione di un bene inferiore rispetto a quello che sarebbe possibile compiere in circostanze diverse.
Il n. 73 di Evangelium vitae è emblematico perché tratta un caso specifico che ci permette di comprendere meglio la distinzione tra male minore e maggior bene possibile.
L’aborto e l’eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza. […] Nel caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l’aborto o l’eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, «né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto» .
Un particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi in cui un voto parlamentare risultasse determinante per favorire una legge più restrittiva, volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati, in alternativa ad una legge più permissiva già in vigore o messa al voto. Simili casi non sono rari. Si registra infatti il dato che mentre in alcune parti del mondo continuano le campagne per l’introduzione di leggi a favore dell’aborto, sostenute non poche volte da potenti organismi internazionali, in altre Nazioni invece – in particolare in quelle che hanno già fatto l’amara esperienza di simili legislazioni permissive – si vanno manifestando segni di ripensamento. Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui .
La situazione descritta da Evangelium vitae è piuttosto chiara, ma ha bisogno di essere esplicitata. C’è in vigore una legge ingiusta che non è possibile abrogare perché le circostanze non lo consentono. Il parlamentare, la cui opposizione alla legge ingiusta è pubblicamente chiara e conclamata, può operare affinché ne vengano limitati i danni, cioè può mettere in atto delle iniziative che mirino al bene maggiore possibile che può essere ottenuto in quella data situazione. Il parlamentare non potrà proporre una legge meno ingiusta di quella in vigore, ma offrire il proprio sostegno a proposte – ad esempio, sotto forma di emendamenti – che ne limitino realmente le conseguenze negative, anche operando dal punto di vista culturale. A quel punto, potremmo chiederci: “che cosa sta facendo quel parlamentare?”. La risposta sarà del tipo: “sta cercando di porre un freno alle conseguenze di un’ingiustizia per quanto è a lui possibile”. Non risponderemo di certo: “sta scendendo a compromesso con una legge gravemente ingiusta”.
Diverso da quello appena esaminato è il caso nel quale, pur avendo ben chiaro il bene ideale, un parlamentare proponesse preventivamente una legge ingiusta di compromesso, per paura che altri ne propongano una peggiore, come è avvenuto sovente nel recente passato. In questo caso, la domanda “che cosa sto facendo?” dovrebbe avere una risposta del tipo: “sto cercando di far prevalere un male su un male peggiore”. Questa condotta risulterebbe illecita dal punto di vista morale. La motivazione più forte mi pare sia quella secondo cui il male, per propria natura, non può mai essere oggetto di scelta, perché non è mai qualcosa di desiderabile. Proporre una legge la cui ratio è ingiusta, sebbene mitigata sotto certi aspetti, significa accettare coscientemente le conseguenze negative di quella legge.
Gli aspetti che mitigano l’ingiustizia, pur essendo conseguenze positive di quella proposta legislativa, non apparterrebbero propriamente alla ratio della legge e non potrebbero in alcun modo configurarsi come l’oggetto diretto dell’azione del parlamentare, ma soltanto come oggetto indiretto e secondario. Non è possibile nemmeno fare appello alla legge del duplice effetto per avvallare la liceità morale di una tale iniziativa, poiché tale legge prevede che il contenuto d’azione sia sempre un bene e mai un male, come avviene, ad esempio, nei casi di legittima difesa, nei quali la morte dell’aggressore è conseguenza indiretta della difesa di una vita in pericolo.
In generale, a livello politico, è necessario che il parlamentare possieda una coscienza rettamente formata che sia in grado di calare i principi della legge morale nella situazione concreta che di volta in volta si configura nelle sedi preposte all’istituzione della legge. Considerare l’orientamento prevalente dei parlamentari rispetto a un certo tema; conoscere il numero dei parlamentari che sono decisi a operare nel rispetto della legge morale e quali sono le possibilità concrete che l’ingiustizia possa trovare dei limiti reali e non fittizi, nel caso in cui non sia possibile scongiurare l’approvazione di una legge ingiusta. È possibile che la proposta di legge che trova il maggiore consenso all’interno dell’assemblea parlamentare non sia emendabile, ma è possibile anche che lo sia. In questo secondo caso, il parlamentare può proporre emendamenti che limitino i danni e nel caso in cui tali emendamenti vengano accolti potrà lecitamente astenersi dal votare la legge così emendata. Non potrà, invece, sostenerla con il proprio voto perché la ratio della legge non sarà comunque mutata. Sarà mutato soltanto il grado gravità delle conseguenze. Tuttavia, occorre considerare che nel caso di una legge ingiusta, che intenda rendere legale ciò che è illecito dal punto di vista morale, i possibili emendamenti non potranno che andare a toccare soltanto quelle parti della legge che sono accessorie rispetto all’essenza stessa della legge. Il caso della legge 40/04 insegna che, nonostante tutte le limitazioni introdotte per frenare le conseguenze della legalizzazione della fecondazione extracorporea, il fine della legge non è mutato, tanto che si è giunti a una piena e assoluta legalizzazione di ogni forma di fecondazione extracorporea, ben oltre ciò che la legge inizialmente prevedeva. Questo significa che è un’impresa disperata quella di emendare quelle leggi la cui ratio è malvagia. Una volta introdotta nell’ordinamento giuridico la legalizzazione di certe pratiche moralmente illecite è possibile cancellarne l’ingiustizia soltanto abrogandole.
Ciò che stiamo dicendo vale anche per le “norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari” che sono in discussione alla Camera dei Deputati da alcuni giorni. La ratio della proposta di legge si configura come avente il fine di introdurre l’eutanasia nell’ordinamento giuridico italiano. La ratio di tale legge è malvagia e l’impianto complessivo presenta dei lineamenti filosofici che non è possibile emendare se non riscrivendo daccapo il testo.
5) Distinguere gli ambiti
È, poi, necessario un discorso diverso per l’ambito culturale nel quale il lavoro principale da compiere è quello di illuminare le coscienze mostrando l’ingiustizia intrinseca di certe leggi. Pur sapendo che l’ordinamento è gravemente ferito dall’introduzione di leggi ingiuste, occorre lavorare affinché nella società sia sempre più riconosciuta una tale ingiustizia. Nei casi di leggi quali la 40/04 e la 194/78 – come anche della legge in discussione alla Camera su consenso informato e DAT – è necessaria un’opposizione in ambito culturale che tenga conto soprattutto del fatto che queste leggi sono frutti di una mentalità individualista ed economicistica nella quale la persona umana è considerata meritevole di protezione soltanto nel momento in cui possa esercitare pienamente le funzioni che le appartengono. Diversamente, la vita umana malata o sofferente non merita protezione e può essere scartata, perché si configura come un peso dal punto di vista sociale ed economico. A partire da tali presupposti non è possibile riuscire a scongiurare, dal punto di vista culturale, le conseguenze di tali leggi, se non con iniziative che aiutino a comprendere la necessità per il bene comune del riconoscimento della protezione dovuta alla persona umana in ogni fase della sua esistenza. È questa, concretamente, una possibile via per cercare il maggior bene possibile in circostanze culturalmente e socialmente avverse: ricominciare a proporre in modo credibile le ragioni per vivere, nonostante la sofferenza, la malattia, le difficoltà economiche o la solitudine. Non si tratterà, quindi, di una semplice opposizione frontale all’ingiustizia, ma di un lavoro paziente e propositivo che cambi la mentalità corrente, uscendo da una rassegnazione senza speranza.
È possibile anche lavorare nella società affinché possa prevalere il maggior bene possibile, ma solo quando ci si trovi in determinate circostanze che qui non si pretende di presentare in modo esaustivo. Si pensi a quelle professioni che sono coinvolte dalle leggi ingiuste. I medici, ad esempio, sono chiamati a opporsi in prima persona a leggi quali la 194/78, la 40/04 e la legge in discussione sulle DAT e il consenso informato. Nel caso entrasse in vigore una legge come quella appena menzionata, il medico, nelle circostanze in cui opera, dovrà rifiutarsi di agire come mero esecutore della volontà del paziente. Tali iniziative devono essere tenute distinte da iniziative di natura politica e culturale, poiché la ricerca del maggior bene possibile che il medico può mettere in campo è necessariamente distinta da quella del parlamentare o di colui che lavora in ambito culturale. Il motivo è il seguente: gli ambiti politico, culturale e medico sono diversi per loro natura è, dunque, l’azione che si può svolgere è specificata da circostanze diverse che mutano il contenuto d’azione. È possibile, infatti, che la ricerca del maggior bene possibile, lecita nelle circostanze date al medico, sia illecita nel caso in cui fosse trasposta nell’ambito politico.
Relazione del prof. Gian Pietro SOLIANI
Assemblea dei Soci del Comitato Verità e Vita 18/03/2017