Il paziente X si trova in stato vegetativo e non ha mai potuto esprimere la sua volontà in un testamento biologico, perché non è in grado di intendere e di volere. Per il giudice tutelare di Pavia, Michela Fenucci, l’amministratore di sostegno del paziente non ha facoltà di staccare la spina. L’eutanasia è illecita … a meno che la volontà del paziente non sia espressa.
Il giudice tutelare del tribunale di Pavia Michela Fenucci deve decidere “sulla attribuzione all’amministratore di sostegno di X della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario”. Il paziente X si trova “in stato vegetativo in esiti di stato di male epilettico in paziente affetto da ritardo mentale grave da sofferenza cerebrale perinatale in sindrome disformica” e “portatore di PEG”. Quindi un paziente incapace di intendere e volere sin dalla nascita. L’art. 404 del Codice civile spiega chi sia l’amministratore di sostegno: “La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno”.
Il comma 3 dell’art 5 della legge sulle Dat prevede che l’amministratore di sostegno, in assenza di disposizioni anticipate di trattamento, possa anche decidere, al posto dell’assistito incapace, di non iniziare o di interrompere terapie salvavita, tra cui anche mezzi di sostentamento vitale quale è la Peg, ossia una tecnica che permette la nutrizione e idratazione enterale.
Quindi, in astratto, l’amministratore di sostegno che il giudice di Pavia deve nominare potrebbe legittimamente uccidere il proprio assistito decidendo di staccare la Peg. La dott.ssa Fenucci ha scelto di sospendere la decisione in merito alla rappresentanza del paziente X perché ha sollevato eccezione di incostituzionalità in merito proprio al comma 3 dell’art. 5, appena citato, e del comma 4 dello stesso articolo perché logicamente connesso. Per il giudice questi due commi sarebbero incostituzionali perché l’amministratore di sostegno potrebbe decidere in via esclusiva della vita e della morte del proprio assistito senza l’intervento del giudice, intervento che è previsto solo nel caso in cui il medico si opponga alla decisione dell’amministratore di sostegno.
Perché secondo la dott.ssa Fenucci, l’amministratore di sostegno non dovrebbe decidere in piena autonomia sulle sorti del proprio assistito? La ragione è semplice: per il nostro ordinamento giuridico il diritto di rifiutare le cure, tra cui anche quelle salvavita, è un diritto personalissimo, ossia la titolarità di questo diritto è in capo solo al diretto interessato e non al suo rappresentante legale che, al massimo, può svolgere un ruolo vicario in merito solo al suo esercizio, ad esempio comunicando le volontà dell’assistito al personale medico: “il diritto a rifiutare le cure è un diritto personalissimo; l’amministratore di sostegno dovrebbe limitarsi a trasmettere la volontà già formata dell’amministrato”, scrive il giudice nell’ordinanza. Quest’ultimo per spiegare meglio il concetto richiama una pronuncia della Cassazione: “La libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extra-giuridiche, quindi squisitamente soggettive” (ordinanza Corte di Cassazione 20 aprile 2005, n. 8291). La Fenucci così conclude: “Ne consegue come in materia di rifiuto delle cure non possa trovare cittadinanza, quale elemento orientativo dal quale attingere, nessun criterio di ordine oggettivo, venendo in rilievo valutazioni personalissime, inscindibili dal soggetto interessato ed indissolubilmente legate alle sue proprie convinzioni religioso-filosofiche ed inclinazioni culturali, e come tali insuscettibili d’essere vagliate alla luce di un giudizio obiettivo o alla stregua del parametro del ‘best interest’”. Il giudice tutelare ci sta dicendo che non importa cosa pensa l’amministratore di sostengo in merito al miglior interesse del paziente, importa invece cosa pensa il paziente medesimo, ossia sono importanti solo le sue volontà. Se le sue volontà non possono essere immediatamente decifrabili occorre l’intervento del giudice.
Per suffragare questa tesi, il giudice argomenta puntellandosi a diversi riferimenti normativi e giurisprudenziali. Ne evidenziamo due. Il primo attiene alla normativa che riguarda proprio l’amministratore di sostegno in cui si prevede come necessaria l’autorizzazione del giudice per esercitare alcuni atti di carattere patrimoniale che interessano le sostanze del rappresentato. “Prevedere – scrive il giudice – l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per l’esplicazione di una serie di atti attinenti alla sfera patrimoniale e al contempo non prevederla per l’atto di rifiuto delle cure, sintesi ed espressione dei diritti alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, si profila come irrazionale; l’ordinamento appresterebbe a un interesse di ordine patrimoniale salvaguardia e presidi tutelativi superiori rispetto a quelli stabiliti per i richiamati diritti alla vita, alla salute, all’autodeterminazione e alla dignità della persona”. In breve: l’amministratore di sostegno non può vendere un soprammobile dell’assistito senza autorizzazione del giudice e invece può ucciderlo senza il placet di quest’ultimo? Appare contraddittorio.
Poi il giudice sottolinea la presenza di un’altra contraddizione: “Si evidenzia […] la presenza di una trama normativa contraddittoria tutta interna alla legge 219 del 2017 [legge sulle Dat]; difatti se da una parte le disposizioni del citato testo normativo risultano fondate sull’intento di valorizzare ed accordare centralità alla manifestazioni di volontà dei singoli, […] non si comprende allora perché nella circostanza di soggetti incapaci difetti la più elementare attenzione per il citato, decisivo, elemento volontaristico, venendo contestualmente a cadere qualsiasi meccanismo di tutela o di controllo”. Per sintetizzare: le Dat si fondano sul principio di autodeterminazione in cui le volontà del paziente sono al centro, mentre i commi 3 e 4 dell’art. 5 mettono al centro le volontà dell’amministratore di sostegno, facendo entrare dalla finestra un principio che si era fatto uscire dalla porta, cioè il principio di eterodeterminazione.
Quindi il ragionamento del giudice in sintesi è il seguente: sulla vita e sulla morte decide il paziente, non l’amministratore di sostegno. Se il paziente non è capace di comunicare le proprie volontà, occorre far riferimento alle Dat oppure, se non ci sono, occorre ricostruirle. Per ricostruirle serve l’intervento del giudice. E nell’ipotesi in cui, come nel caso all’attenzione del giudice, il paziente non è mai stato capace di intendere e volere e quindi non ha mai avuto la capacità di determinarsi in alcun modo, come comportarsi? La Fenucci risponde: il giudice tutelare non potrà che decidere per il favor vitae e quindi mai potrà ordinare di staccare la spina.
Cosa deciderà la Corte costituzionale? Difficile dirlo, ma azzardiamo una previsione. Nel caso in cui il rappresentato non possa esprimersi si deciderà per il suo best interest. Ossia il diritto alla vita è subordinato al diritto alla dignità personale (diritto inesistente nel nostro ordinamento giuridico, ma ormai predicato da qualche giudice), ciò a dirsi che il diritto alla mera esistenza biologica deve cedere il passo al diritto ad una qualità di vita apprezzabile. Se simile apprezzamento non può venire dal diretto interessato, potrà venire dal rappresentante legale. In breve si articoleranno proprio quelle argomentazioni criticate dal giudice di Pavia.
Torniamo infine per un momento alle riflessioni della Fenucci il cui sforzo per salvare gli incapaci dalle grinfie dei propri rappresentanti legali pro-eutanasia è sicuramente da encomiare. Tali riflessioni però non sono completamente condivisibili. In primis, anche dal punto di vista giuridico, non ogni volontà del paziente è legittima. Eccezion fatta per la legge sulle Dat, la vita rimane un bene indisponibile (v. reato omicidio del consenziente, aiuto al suicidio, un’infinità di norme che obbligano ad assumere alcune condotte a tutela della propria vita, etc.). Il quadro attuale è quindi che tu non puoi farti ammazzare, eccezion fatta nei reparti di ospedale (così anche per il reato di omicidio: vigente in tutti i luoghi eccetto in quegli ospedali dove si pratica l’aborto). Da qui l’incostituzionalità di tutta le legge sulle Dat. Ma anche volendo applicare tale normativa, dal punto di vista morale nessuno ha la liceità morale di farsi uccidere e di conseguenza nessun giudice potrebbe assecondare volontà eutanasiche.
Altro rilievo: la ricostruzione delle volontà – principio che ha portato a morte Eluana Englaro – è aspetto assai critico almeno per due motivi. Primo perché assai difficile ricostruire le determinazioni di un soggetto tenendo soprattutto conto che si sta parlando della sua vita. In secondo luogo perché, mettendo l’accento proprio sul valore della volontà personale, la libertà affinchè sia tale deve attualizzarsi momento per momento. La ricostruzione della volontà, anche ammesso e non concesso che fosse veritiera, ci dice che allora Tizio pensava così, ma non ci dice nulla su cosa Tizio ora pensi.
Infine l’avvaloramento che la dott.ssa compie, seppur implicitamente, dello strumento delle Dat ha un po’ i piedi d’argilla proprio per il motivo appena indicato: le Dat cristallizzano le volontà del dichiarante nel passato, le congelano in un momento diverso dal presente, e sono incapaci di attualizzarle. Sono nemiche dunque della volontà della persona. Altro motivo per affermare che la legge sulle Dat è incostituzionale.
Tommaso Scandroglio
La Nuova Bussola Quotidiano, 2 aprile 2018