Facebook non è solo uno strumento di socializzazione virtuale, è anche un’arma di potere. A cui si può sfuggire. Riscoprendo di essere persone e tornando alla (vera) realtà.
Il caso Facebook-Cambridge Analytica ha confermato quel che tutti immaginavamo: la rete che Mark Zuckerberg ha creato, quando ha lasciato Harvard 13 anni fa, non è solo uno strumento di socializzazione virtuale, ma è anche un’arma di potere, con un’immensa quantità di dati a disposizione che permette di segmentare le informazioni e creare una pseudo-informazione, entrando nell’io più intimo, nei rapporti di “amicizia”.
Tanto è il potere accumulato dal social network, che il caso scoperto, l’uso dei dati personali di 50 milioni di utenti per la campagna Trump, invita a ripensare quali sfide deve affrontare il diritto alla privacy, all’informazione e alla partecipazione politica. I princìpi dello Stato liberale sono stati capovolti. Il caso invita, soprattutto, a recuperare l’intangibilità dell’io.
Su Facebook non c’è privacy. Come in qualsiasi social network. Tutta la grande diga giuridica, costruita per anni per salvaguardare i dati degli utenti, è venuta giù. Le scuse di Zuckerberg e le sue promesse di rendere più visibili ed espliciti i consensi delle applicazioni che gestiscono le informazioni personali risultano assolutamente inverosimili. Sappiamo tutti che, al momento, non ci sono barriere. La sfida per il futuro è immensa. Gli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale lavorano instancabilmente per trarre delle conclusioni dalla nostra impronta digitale, un’impronta grande come la vita.
Washington, Bruxelles e Londra hanno chiesto l’apparizione del fondatore di Facebook davanti ai loro parlamenti. Ci saranno buone parole, ma, al momento, poche soluzioni. Le pratiche dei social network, non solo il filtraggio dei dati, sono una questione politica di grande importanza. Una questione che rende evidente come le nostre democrazie non possano concepirsi solamente come una relazione verticale tra lo Stato e l’individuo.
La nostra democrazia non è solo un sistema che gestisce bene la circolazione di cittadini isolati e che ordina i diritti soggettivi delle monadi. La democrazia è molto di più: un ecosistema di relazioni in cui i suoi protagonisti parlano, discutono sulle sfide che affrontano insieme. I diritti di informazione, di riunione, le libertà civiche non sono solamente essenziali nella loro dimensione personale o individuale, ma anche perché esercitandole si rende possibile la formazione dell’opinione pubblica e della volontà comune.
Questa è la prima ambiguità dei social network: possono contribuire a una segmentazione della realtà molto più grande di quella dei media tradizionali. Su stampa, radio e televisione c’è sempre un pregiudizio ideologico, ma è difficile che sia così assoluto da far scomparire i fatti. Sui social network la tendenza a trincerarsi nella tribù degli “amici” aumenta a dismisura. Il lettore non cerca più informazioni. È l’informazione, in molti casi la disinformazione, a cercare il membro della setta. Facebook, come tutti i social network, è gratuito. A meno che non facciano pubblicità. Gratis? Davvero gratis? No. La merce è costosa, la merce è l’utente che rivela con ogni foto, con ogni like, con ogni commento il suo io più intimo, il suo io in relazione con gli “amici” reali o virtuali. L’utente è il bene più prezioso perché “vende” se stesso. In cambio di essere in collegamento, l’utente facilita la pubblicità più invasiva e più diretta (che non si collega all’io reale, ma ai sogni) che si possa concepire.
Essere consapevoli di come funziona il nuovo potere non implica alcun manicheismo. La capacità del nuovo potere, dei social network, è inversamente proporzionale alla quantità di persona che c’è nell’utente. Se l’utente è un individuo, vale a dire un soggetto isolato, disinformato dall’appartenenza a una tribù in cui si esclude l’altro, senza legami reali, senza esperienze tangibili che permettano di distinguere ciò che soddisfa il desiderio e ciò che lo frustra, il potere ha campo libero: l’utente finirà per essere convinto di essere una merce.
Se, invece, è una persona, con un ricco tessuto di relazioni che la invitano a uscire dai propri pensieri e ad andare verso le cose, a osservare di più e a fantasticare di meno, se i social network di carne e ossa la portano fuori dal suo piccolo mondo, le danno la proporzione infinita di ciò che attende e la salvano con quella capacità di guarigione che la realtà ha.
Fernado De Haro
Il Sussidiario.net, 7 aprile 2018