Gli arresti dei giorni scorsi per i fatti del giugno 2017 in piazza San Carlo a Torino sembrano dare ragione agli avversari della riforma della cittadinanza riconosciuta anche attraverso lo strumento dello ius soli e dello ius culturae, e possono far sorgere dubbi in chi la sostiene.
Infatti, i capi della banda dello spray al peperoncino, che ha utilizzato lo spray urticante per creare deliberatamente confusione e poi derubare gli spettatori che guardavano sul maxischermo la finale di Champions League del 3 giugno 2017 persa dalla Juventus, avrebbero agito altre volte con questo sistema criminale. Dei dieci arrestati dalla polizia, tutti ventenni di origine maghrebina, si sa poi che sono ‘di seconda generazione’. Si tratta, cioè, di cittadini italiani provenienti da famiglie di origine straniera stabilitesi nel nostro Paese da parecchio tempo, con genitori occupati e fratelli o sorelle studenti anche universitari. Dunque non si tratta di irregolari – come dicono le solite bufale ‘social’ -, non hanno alle spalle storie di emarginazione grave e povertà materiale. Cadute contro di loro le accuse di omicidio preterintenzionale, se le altre accuse saranno provate, ci troveremo invece davanti a una banda di balordi. È lecito farsi domande ed è necessario cercare risposte perché alle spalle dei capi di questo gruppo, ad esempio, ci sono percorsi di studio e integrazione finora ritenuti condizione necessaria e sufficiente per diventare cittadini italiani per così dire ‘esemplari’. Il presunto capo è un 20enne italiano di origine marocchina prossimo al diploma in una scuola che garantisce occupazione ai suoi diplomati. Colpisce, perciò, il disprezzo – desunto dalle intercettazioni – suo e dei suoi sodali per valori quali il lavoro, il sacrificio, il guadagno onesto: tutto da buttare, come per ribellione a quanto le loro famiglie invece sperimentano quotidianamente, anche con grandi sacrifici per vivere con decoro e per far studiare i figli. E proprio questo aiuta a capire che il problema non è l’«integrazione», come già per i casseurs che lo scorso decennio misero a ferro e fuoco Parigi, calando dalla periferie per prendersi a forza quel che stava nelle vetrine luccicanti del centro città. Anche loro erano «integrati », ma avevano preso dai ‘valori’ delle società occidentali soprattutto il consumismo esasperato, la brutale voglia di accaparrarsi i simboli della ricchezza e del successo. Anche la banda torinese, fatte le debite proporzioni, ha colpito per i soldi facili, per poter avere capi d’ abbigliamento firmati e cellulari e dispositivi elettronici di ultima generazione, per dimostrare di essere «integrati», senza fare fatica, sino a mettersi al di sopra delle legge. I l problema, dunque, non è il rifiuto dell’ Occidente, ma – come per tanti altri giovani (e no), protagonisti di storie e percorsi diversi – è l’ aver assorbito soltanto i disvalori del nostro ‘mondo libero’. Disvalori che sono diffusi e quasi predicati da anni, proposti sistematicamente, in modo subliminale ed esplicito da miti e da modelli insistenti, da stili di vita rilanciati ossessivamente da tv e social media. Viene irriso, anche apertamente, l’ impegno in ogni campo e viene considerato accettabile solo quel che procura soldi e fa apparire vincenti, a ogni costo. E poiché i migranti spesso sono lo specchio dei nostri comportamenti – anche di quelli peggiori – occorre drizzare le antenne a tutto campo, considerando i fatti di piazza San Carlo non come un problema di stranieri ‘da cacciare’ o da non rendere cittadini perché non integrabili, ma come un ulteriore capitolo della sfida educativa che riguarda un purtroppo vasta porzione di ragazzi italiani, e dunque anche quelli con radici in famiglie provenienti da altri continenti e con una fede diversa da quella cristiana. Come ci ha ricordato ieri il cardinale Gualtiero Bassetti al convegno della Caritas italiana ad Abano Terme, l’ unica via è «camminare accanto a loro», come fece Gesù con i discepoli di Emmaus. Servono per questo educatori attenti e insegnanti capaci. E serve che costoro non vengano delegittimati dalle famiglie quando fanno suonare campanelli d’ allarme e segnalano comportamenti fuori dalle regole. Nella disastrosa vicenda di piazza San Carlo a risolvere i dubbi spunta infine il pentimento del capo, che avrebbe voluto costituirsi prima dell’ arresto, sentendosi responsabile del disastro accaduto. Può diventare lui il testimone più efficace per ricordare con la propria esperienza che chi insegue i miti della ricchezza facile, in spregio alla legge e alla giustizia, prima o poi trova il carcere. Poco importa che si tratti di un italiano di tradizione o, invece di prima o seconda generazione: ogni pena inflitta, lieve o no, è un marchio duro e difficile, da cancellare. Lo stigma per chi spaccia quei falsi miti, che generano mostri, deve tornare a esserlo altrettanto.
Paolo Lambruschi
Avvenire, 18 aprile 2018