Basta con certi pensatori “organici” o con chi ritiene che sia sufficiente una bella immagine o un’efficace presenza nel solito talk show. Ecco l’identikit di chi ci manca. Che fine hanno fatto gli intellettuali, oggi, nel nostro paese? Qual è il loro ruolo nel dibattito pubblico? E, più specificamente, che spazio c’è per i filosofi in questo quadro?
Si tratta certamente di domande complesse. Esse tuttavia debbono essere poste, perché oggi è radicalmente cambiato il modo in cui la cultura può incidere nella mentalità comune. Soprattutto sono mutate le forme in cui la cultura stessa può essere comunicata e diffusa. Più ancora: è diversa la percezione del suo ruolo nella società. Un primo sintomo è dato proprio dall’imbarazzo nell’uso di certe categorie. Di “intellettuali” si parla con sospetto, o con un mezzo sorriso. Quanto ai filosofi, essi da sempre sono considerati l’immagine dell’astrattezza. Ciò si ripropone a maggior ragione, oggi, in Italia: in un paese nel quale un rapporto proficuo fra le varie componenti della società, in vista del bene comune, si è ormai disgregato; in una realtà in cui le varie categorie, economiche o professionali, sono state oggetto di delegittimazione e si sentono in conflitto con le altre. È l’applicazione dell’antico motto “ divide et impera”. Ma si tratta di un’arma a doppio taglio: chi fa questo gioco, alla fine ne viene anche lui travolto, vittima della stessa delegittimazione che vuole infliggere.
A dispetto di ciò, tuttavia, la filosofia in Italia è ben viva. Lo dimostrano vari filoni di ricerca, che interagiscono con il dibattito internazionale. Pensiamo per esempio al cosiddetto “Italian Thought” proposto e sviluppato da Roberto Esposito. Pensiamo al filone del “nuovo realismo”, nato come correttivo a un’idea di «interpretazione » spinta fino al proprio stesso dissolvimento. Pensiamo alla riflessione di Emanuele Severino, che sfida l’approccio metafisico sul suo stesso terreno. Pensiamo a quelle ricerche che recuperano e declinano in modi nuovi concetti e autori del passato (come accade con il tomismo analitico, con la filosofia della relazione, con la ripresa di alcuni temi centrali della tradizione umanistica). Pensiamo alle etiche applicate, che offrono orientamenti di fondo a decisioni concrete. E tuttavia, proprio in questo quadro, il riconoscimento del contributo di chi riflette, di chi fa un “lavoro intellettuale” (come una volta si diceva), sembra essere venuto meno. E proprio quando esso sarebbe più utile: in un momento cioè, come il nostro, di grande confusione civile e sociale. Gli uomini politici, infatti, non sembrano avere più bisogno di prospettive e di consigli critici, perché ciò che serve loro sono soprattutto buoni comunicatori, capaci di seguire i mutevoli gusti del pubblico. Ma non servono a molto neppure le opinioni degli opinionisti: tanto più che solo il 20% degli italiani legge regolarmente un giornale. Oggi, poi, le opinioni sono tutte sullo stesso piano, indipendentemente dalle competenze che uno ha. Ognuno può essere un opinionista. È sufficiente che abbia l’accesso a un Social per esprimersi ed essere gratificato da un “mi piace”.
Insomma: serve ancora ragionare, argomentare in maniera competente, serve sapere come altri lo hanno fatto, serve imparare dal passato? Serve analizzare i problemi, porci di fronte ai grandi dilemmi della vita con una visione di fondo, proporre strategie di lungo termine, confidare ancora nel buon senso e nell’intelligenza delle persone? Certo che sì: visto che l’opinione pubblica non è affatto composta da stupidi. Vanno semmai cambiate le forme in cui questo contributo viene offerto. Non si tratta solo di mutare stile di comunicazione: è una questione di contenuti. Basta con gli intellettuali “organici”, quelli almeno superstiti, che solo per abitudine qualcuno ancora ascolta. Basta con coloro che ritengono che sia sufficiente una bella immagine, o un’efficace presenza in un talk show, per essere seguito. Si tratta invece di far sì che la cultura sia messa davvero al servizio dello sviluppo del paese, e di mostrare concretamente i modi in cui ciò può avvenire. Si tratta d’integrare nella coscienza civile il contributo di sviluppo e di ricerca di coloro che lavorano sulle questioni di fondo, senza isolarli e senza permettere loro d’isolarsi in comode torri d’avorio. Condannare questo contributo all’irrilevanza, infatti, è uno spreco per l’intera società.
Adriano Fabris
Avvenire.it, 15 aprile 2018