Sana Cheema viveva nel bresciano e voleva sposare un ragazzo italiano. I suoi parenti l’hanno assassinata, perché si ribellava al matrimonio combinato. La stessa sorte è toccata a tante altre ragazze pakistane e musulmane, come Hina, Nosheen, Samia e la marocchina Rachida che provò a convertirsi.
Gujrat è una città del Pakistan, nella regione del Punjab. Una città che vive di agricoltura e artigianato, e da cui arrivano gran parte dei narghilè tanto di moda in Occidente, espressione della possibilità di culture lontane che si fondono, almeno così pare. Ma qualche giorno fa Gujrat è stata anche teatro dell’ennesima tragedia che enfatizza, piuttosto, le distanze.
Sana Cheema era nata proprio a Gujrat venticinque anni fa e con la famiglia era emigrata in Italia, a Brescia, poco più che bambina. La sua famiglia dopo diversi anni aveva scelto di emigrare nuovamente e questa volta in Germania in cerca di un futuro migliore. Sana invece in Italia ci era voluta rimanere, e con la scusa di aver trovato un lavoro in un’attività commerciale glielo avevano persino concesso. Ma la motivazione più importante era il fidanzato. Un giovane italiano che l’avrebbe sposata. Qualcosa che non può e non deve essere contemplato in una famiglia pakistana dove i matrimoni sono combinati. E quando Sana è tornata a Gujrat, giusto per qualche giorno, per fare visita alla famiglia, quella voglia di vivere all’occidentale e sposare un italiano, il padre e il fratello hanno deciso di fargliela passare una volta e per sempre: l’hanno sgozzata.
La tragica vicenda di Sana ricorda quella di Hina Saleem. Pakistana anche lei, che all’alba dei suoi vent’anni venne barbaramente uccisa nel 2006 a Sarezzo, sempre nel bresciano. Anche Hina vestiva troppo all’occidentale e aveva un fidanzato italiano. Il padre, lo zio e i cugini la sgozzarono con un coltello da cucina (i carabinieri ne sequestrarono alcuni, almeno due erano sporchi di sangue), scavarono una buca in giardino, calarono il corpo dalla finestra e la seppellirono con la testa rivolta verso la Mecca. “Non volevo che diventasse come le ragazze di qui. Le avevo chiesto di cambiare vita, ma lei non voleva”, confesserà più tardi il padre, con il tono di chi ha fatto solo il suo dovere.
Come quella di Sana e Hina è stata la storia di Nosheen Butt. Pakistana trasferitasi con la famiglia a Modena. Il padre aveva quasi tutto pronto per il suo matrimonio combinato, ma Nosheen non ha intenzione di sposare un uomo – suo cugino – che nemmeno conosceva, la mamma è dalla sua parte. Nel 2010, in un giorno qualunque, Nosheen verrà presa a sprangate dal padre e dal fratello – ma sopravviverà – la mamma verrà lapidata e morirà poco dopo.
A Samia Shadid, pakistana, ventotto anni, toccò una sorte simile nel 2016. Scappata da un matrimonio combinato, si era trasferita in Gran Bretagna. Aveva deciso di andare a trovare i genitori a Islamabad per cercare di appianare le tensioni, ma anche lei venne uccisa dal padre. Colpevole, pergiunta, di essersi convertita allo sciismo.
E se questo è il destino riservato alle donne che tentano di sottrarsi alla pratica dei matrimoni forzati, figuriamoci quale tipo di persecuzione può toccare a chi si macchia del reato di apostasia. Come Rachida – la cui storia ha raccontato Souad Sbai in un libro -, che si stava convertendo al cattolicesimo. Una marocchina residente in provincia di Reggio Emilia che aveva iniziato a frequentare una parrocchia di nascosto e che a colpi di martello è stata massacrata dal marito quando è stata scoperta.
Destini che s’intrecciano nella strana trama del politicamente e islamicamente corretto, dove l’attenuante culturale è il ritornello, il multiculturalismo lo spartito da suonare, l’integrazione la battuta finale dal ghigno amaro.
Lorenza Formicola
La Nuova Bussola Quotidiana, 22 aprile 2018