Chiese blindate tra metal detector e militari: si vive così nella comunità copta dopo la lunga ondata di attentati di matrice fondamentalista. Ma la paura non ha svuotato le chiese.
Sono circa dieci milioni i cristiani che vivono in Egitto. Minoranza nel Paese musulmano, costituiscono comunque la più grande comunità cristiana del Medio Oriente. Da secoli vivono sotto attacco ma negli ultimi anni le violenze sono state sempre più efferate. Ed ora si va a messa in chiese blindate, i vescovi camminano con la scorta e i giovani debbono usare anche con parsimonia i social network. Eppure ci sono semi di speranza che lasciano intravedere una convivenza possibile.
Il Cairo copto, l’antico quartiere cristiano della capitale egiziana, sorge sulla Fortezza di Babilonia. E oggi come allora è una cittadella blindata. L’ingresso è uno slalom tra blocchi di cemento, transenne, fino ai metal detector, e ai controllo minuziosi di tasche, borse, zaini. Uomini armati ovunque. Stessa scena alla sede del Patriarcato, alla Nunziatura, ai monasteri, i seminari.
E’ così la vita dei cristiani Copti che celebrano messa con le guardie armate fuori i portoni, le telecamere dentro, anche sopra l’altare, e i tanti uomini della sicurezza in borghese sparsi a vigilare tra i banchi, mentre risuonano canti antichi, litanie che risalgono fino a secoli fa, quando San Marco, loro primo martire, portò il cristianesimo da queste parti.
CRISTIANI D’EGITTO, VITE IN TRINCEA
Gli attentati
L’ultimo attentato è stato a fine dicembre 2017, in una chiesa alla periferia del Cairo. Ma dalla ‘primavera araba’ ad oggi sono decine i morti raccolti tra i banchi delle chiese. Al Cairo, nella sede del Patriarcato Copto Ortodosso, è nato anche un Museo dei Martiri, per non dimenticare. Un memoriale dove le facce sorridenti delle fotografie si mescolano agli abiti intrisi di sangue delle vittime. Ci sono le teche che conservano gli oggetti della vita quotidiana di queste persone uccise per la loro fede: libretti delle preghiere ma anche felpe alla moda, scarpe con i tacchi, cuori di glitter. C’è Demiena: sopra la foto nel giorno della laurea, sotto i jeans sporchi di sangue, così come li hanno trovati nella chiesa di San Pietro al Cairo dopo l’attentato del 16 dicembre 2016. C’è anche la foto di una bambina, Meggie, faccia impunita con lo sguardo vispo da dietro gli occhiali, nella teca una scarpa di ginnastica, l’unica cosa ritrovata di lei dopo l’esplosione.
In primo piano tra le foto i martiri copti uccisi in Libia dall’Isis. Le foto con loro in ginocchio con le tute arancioni fecero il giro del mondo. Ma nel museo ci sono anche quelle della loro vita quotidiana, ragazzoni sorridenti, che erano andati fuori Egitto solo per lavorare.
IL MUSEO DEI MARTIRI
“Non abbiamo paura”
Papa Tawadros II, il Capo della Chiesa copta, grande amico di Papa Francesco, sottolinea come “la battaglia contro la violenza e il terrorismo si fa con il dialogo, isolando coloro che cercano di coprire i loro gesti con concezioni sbagliate della religione”. E anche Anba Yolios, il vescovo del Cairo vecchio, dice sicuro: “In Egitto non abbiamo paura. Gli egiziani sono coraggiosi e quando accade un attentato il numero delle persone in Chiesa aumenta”.
E certo impressiona vedere le chiese piene, i monasteri ricchi di vocazioni, le suore pronte ad aprire comunque la porta a chiunque bussa. Nella Chiesa ‘sospesa’, una delle più importanti della capitale egiziana, e dove c’è ancora un antico cunicolo segreto per mettere in salvo l’Eucarestia in caso di attacchi, basta alzare gli occhi al soffitto per vedere le telecamere puntate. Se si esce fuori città, a sorvegliare i monasteri, addirittura presidi con i carri armati. Nella Chiesa sul Nilo al Maadi, tappa del viaggio della Sacra Famiglia secondo la tradizione, i militari presidiano l’ingresso senza pause. E pensare che qui c’è ancora il sottopasso attraverso il quale si fuggiva verso il fiume, con le barche sempre pronte a salpare.
Il passato e il presente che si mescolano. Come per Mike, giovane poliziotto copto, uno degli ‘angeli custodi’ di pellegrini e turisti, con la mitraglietta che spunta dalla giacca. Mostra lo smartphone sul cui schermo spunta un San Giorgio trionfante. “E’ il mio santo preferito”, dice sorridendo; uno strappo alla regola, quel sorriso, nelle giornate scandite dalla tensione quotidiana. San Giorgio: martire ma con la spada in mano. Come Abu Seifin, altro santo le cui icone tappezzano ogni luogo di culto, che di spade ne ha addirittura due.
“Il governo sta facendo il possibile per proteggere le chiese ma l’apprensione resta”, ammette il Nunzio apostolico in Egitto, monsignor Bruno Musarò, in una sede dove la sorveglianza è ormai 24 ore su 24. “Ma i cristiani – sottolinea – sanno perdonare. Ho incontrato qualche tempo fa una madre che aveva perso il figlio nell’attentato di Minia, del maggio di quest’anno, e mi ha detto che come cristiana non poteva non perdonare”.
SUI PASSI DELLA SACRA FAMIGLIA
I testimoni
A San Pietro, la chiesa che un anno fa ha visto morire 29 persone, quasi tutte giovani donne, la gente e’ tornata subito a pregare. Su una colonna i segni dell’esplosione, per non dimenticare, e nel chiostro le gigantografie delle vittime.
Tra loro c’era Habib Abdallah, aveva 48 anni, era il custode della chiesa. Ha lasciato tre figli e una moglie, Mariam, che ora porta la foto del marito incastonata nel ciondolo della collanina. “Siamo pronti, sappiamo che questo può accadere, e a noi è accaduto”. E se le chiedi se è possibile perdonare, risponde senza esitazione: “Sì, non dimentichiamoci che siamo cristiani”.
Ad Alessandria incontriamo un’altra vedova, Gihen Gerges Basilli. Lei ha perso il marito nella Chiesa di San Marco nell’attentato della Domenica delle Palme, un anno fa. Ora stringe per mano i due gemellini di 8 anni, Fedi e Bishoi, e ringrazia Dio perché quel giorno anche uno dei due piccoli, che scorrazzava fuori la chiesa, ha rischiato di morire nell’attentato. E invece è lì. Paura? Ci pensa, sospira e ammette: “Sì, ho paura, ma continua ad andare in chiesa”.
Dal Nord al Sud, fino a Minia, dove incontriamo Maikal. Il 26 maggio scorso ha raccolto suo padre nell’obitorio dell’ospedale cittadino. Un colpo in fronte come tanti di quelli uccisi mentre andavano in pellegrinaggio al santuario di San Samuele. Ma lui fiero risponde: “No, non ho paura”. Continua a vivere nella casa a due piani nella periferia della città e ha preso le redini della ditta e anche della sua grande famiglia.
IL DOLORE DEI SOPRAVVISSUTI
In trincea
Alla periferia di Alessandria, nel quartiere vicino al porto, c’è una parrocchia copto-cattolica. Abuna Francis, un prete di quasi due metri, sposato (ai sacerdoti copti è consentito) con tre figli, ci accoglie nella parrocchia dell’Immacolata Concezione. Metal detector, cancello di ferro, ingresso
della chiesa principale sempre chiuso; si entra a messa praticamente passando dalla sacrestia. “Siamo in un quartiere a maggioranza Salafita – spiega – con la presenza anche dei Fratelli Musulmani. Ci sono anche povertà, armi, droga. Non ci facciamo mancare niente”, dice ironicamente. Ma alla sua messa se non arrivi in tempo ci sono solo posti in piedi. “Più sono le minacce e più la chiesa e piena”, sottolinea il prete di frontiera.
E’ una comunità ferita ma sostanzialmente salda, unita, esempio anche per i cristiani d’Occidente. A parlare così dei cristiani in Egitto è il direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre, Alessandro Monteduro, a conclusione della recente missione nel Paese dove la fondazione pontificia ha avuto incontri con le diverse realtà della Chiesa al Cairo, Alessandria, Assiut, Minia. “Sono tanti i progetti sostenuti da Acs, particolarmente vicina a questa comunità dopo i fatti del 2013. Contribuiamo alla sicurezza dei luoghi di culto, alla ricostruzione, al sostegno dei familiari di alcune vittime”, sostiene Monteduro. Aiuto alla Chiesa che Soffre ha finanziato, negli ultimi sei anni, progetti in Egitto per 4,6 milioni di euro. “Ora a noi compete andare avanti, invitare le diocesi e gli ordini religiosi a sentire vicine queste realtà. Siamo pronti a profondere più sforzi nell’area del Medio Oriente, e in Egitto in particolare”. “Acs torna in Italia con l’idea di una comunità forte, consolidata nella fede, esempio vivo per le comunità cristiane d’Europa. Qui si partecipa alla messa – ha fatto notare Monteduro – consapevoli di mettere a repentaglio la vita. I ripetuti attentati non hanno allontanato i fedeli ma hanno avvicinato ancora di più i cristiani alla chiesa”.
Francescani, qui da otto secoli
La comunità cristiana in Egitto non si dà per vinta. Va avanti fiera. I nomi Maria o Antonio, ‘timbro’ cristiano continuano ad essere dati ai piccoli; come anche molti portano tatuata la croce sul polso. I ragazzi frequentano le parrocchie, parecchi si impegnano negli oratori. Gli ordini religiosi sono impegnati a trecentosessanta gradi, nell’attività spirituale ma anche nell’educazione.
Tra questi ci sono, da otto secoli, i francescani.
Alla parrocchia dell’Assunta, a Der Dronka, è un via vai. Tutti cercano i tre frati, cuore pulsante del villaggio. Ventimila anime ad una decina di chilometri da Assiut, Alto Egitto, il villaggio, interamente cristiano, rischierebbe di sparire senza gli ‘abuna’, come chiamano i padri francescani. Tutto ruota intorno al piccolo convento di fra Paolo, fra Shenuda e fra Youssef: la scuola, il mulino, il panificio, la falegnameria, finanche la raccolta differenziata dei rifiuti. Ora hanno un altro sogno: quello di aprire un distributore di benzina, “perchè qui non c’è”, spiegano con serafica semplicita’.
Saio e Vangelo, breviario e croce, ma spesso anche scarpe comode al posto dei sandali, per percorrere in lungo e largo le strade polverose d’Egitto. I francescani, oggi 110 religiosi distribuiti in 33 conventi, sono un pezzo di questo Paese, qui da 800 anni, da quando Francesco d’Assisi nel 1219 prese la nave ad Ancona per sbarcare a Damietta e incontrare il Sultano Melek. Si sa poco di quel faccia a faccia; fatto sta che da otto secoli, i frati in questa terra per la maggioranza musulmana, operano all’insegna del rispetto e del dialogo. E in molti casi offrono alla gente non solo messe e pane ma anche qualcosa di più, a partire dalle 18 scuole e dai tanti presidi sanitari distribuiti ovunque. Il provinciale, padre Kamal Labib, spiega che “fino al 1992 i conventi erano divisi tra la Custodia di Terra Santa e la Provincia Toscana. Ora siamo la provincia della Sacra Famiglia”. E annuncia che le celebrazioni per l’ottocentenario di Damietta stanno per cominciare. In cuore la speranza che nel 2019 possa tornare in Egitto, per questo evento, Papa Francesco.
Al Cairo il quartier generale dei francescani è la chiesa di San Giuseppe. Un’entrata laterale conduce ad un ambulatorio all’avanguardia dove si fanno dalle analisi del sangue alle ecografie, dove c’è il dentista e anche il pediatra. Con poche sterline egiziane si offrono cure e prevenzione. A dirigere la struttura un ‘francescano ad honorem’, Antonio, bancario in pensione, che spiega come quella piccola struttura assicuri “cure a 700 persone l’anno”. E sempre nel complesso dei francescani c’è un grande cinema, 350 posti, che ospita importanti rassegne. Ora un altro progetto: una gara canora per i bambini, una specie di ‘zecchino d’oro’. A Gyza, a due passi dalle piramidi, c’è il centro culturale francescano, dove si studia coptologia, lingua, arte e liturgia dei cristiani.
“Vorremmo creare una vera e propria università cattolica”, dice il padre guardiano, Kamal Wiliam. Liam, jeans scuro e hijab azzurrino studia qui. E’ musulmana e vuole fare la guida turistica. E se le chiedi che cosa ci fa una ragazza musulmana risponde: “Mi interessa questo parte della storia del mio Paese”, spesso non citata dai libri di scuola.
SAIO E VANGELO
I conventi bruciati
Ma anche i conventi sono da un po’ di tempo delle fortezze. A San Giuseppe per accedere alla chiesa bisogna oltrepassare transenne, controlli dei militari, metal detector. Per entrare nella parte piu’ privata annunciata dal cartello “clausura” occorre citofonare, farsi riconoscere. E colpisce, appena entrati, vedere sulla parete un quadro con nove monitor, tante le telecamere disseminate dall’esercito intorno al convento. D’altronde i frati di Francesco non sono stati risparmiati dalla furia degli islamisti.
Il 14 agosto del 2013, una data che i cristiani d’Egitto hanno stampata nella memoria, quando in un solo giorno furono bruciate contemporaneamente oltre sessanta chiese, toccò anche ai frati raccogliere i cocci della devastazione. A Suez, per esempio, al convento dell’Immacolata Concezione. Padre Gabriel racconta come nella furia delle violenze dovette togliersi il saio per non essere riconosciuto e ucciso. Tutto devastato in un paio d’ore. E lui, ora che la Chiesa è stata risistemata, ha voluto tenere in bella vista la statua di San Francesco senza testa e senza mani. Per non dimenticare. Anche se oggi dice come “dopo quell’attentato la comunità sia diventata più solidale. Dio ha voluto che da un a male nascesse un bene”.
Lo stesso giorno bruciò una chiesa francescana anche ad Assiut, San Francesco Stimmatizzato. “Era la vigilia dell’Assunta – racconta fra Mena – e stavamo andando in pellegrinaggio al santuario della Madonna. In convento era rimasto solo frate Agostino con un gruppo di giovani. Sono scappati dai tetti”, racconta. Una stanza del convento oggi è dedicata alla memoria di quella giornata, con l’esposizione di talari e libri della preghiera con i segni delle bruciature.
CHIESE FERITE MA NON VUOTE
I monaci del deserto
Wadi Al-Natrun è quasi tre ore dal Cairo, tempeste di sabbia permettendo. Qui ci sono quattro tra i monasteri più antichi del mondo, dove è nato il monachesimo oltre 1700 anni fa e che oggi rifiorisce con la presenza di centinaia di religiosi. Nel monastero di San Bishoi sono circa duecento; più o meno altrettanti nei tre conventi limitrofi. Vere e proprie oasi, punti di riferimento per la gente dei villaggi. I monaci sono padri spirituali, teologi, ma anche medici, agronomi, ingegneri, fisioterapisti, dentisti, farmacisti. Arrivano al convento tutti con una laurea in tasca, pronti ad insegnare nuove tecniche agricole o a curare malattie. Traducono manoscritti antichi ma non disegnano smartphone, web e tv perchè, come dice Abuna Sarabamun, “dobbiamo restare in contatto con il mondo, sapere che cosa accade, anche per pregare per la gente fuori di qui”.
La gente dei villaggi, quasi tutti musulmani, ha come punto di riferimento questi monaci. “Le relazioni sono molto strette, viviamo insieme da secoli”, dice Abuna Makary del monastero di Baramos, sempre nella valle del nitro, il sale caro ai faraoni che consentiva di mummificare i corpi; il monaco ci accompagna, piedi scalzi proprio come in moschea, nella chiesa incastonata tra le cupole color sabbia, come quella del deserto attorno. Ma questo dialogo secolare tra cristiani e musulmani non cancella le paure di una Chiesa da sempre ‘ferita’. I monasteri costruiti sin dall’origine come fortezze, con tanto di cunicoli e passerelle di legno per fuggire all’occorrenza, sono accessibili solo dopo stretti controlli, tra metal detector e torrette presidiate dai militari. Lungo
la via ci sono, sparsi come per caso, anche presidi pesanti, con carri armati e giovani con elmetti e giubbotti antiproiettili.
LE DONNE CRISTIANE IMPEGNATE NEL SOCIALE
Sono tante le donne cristiane, dalle suore alle laiche, che operano nel sociale, offrendo servizi che nessuno fa. Come le suore di Madre Teresa ad Alessandria. Si occupano di disabili mentali, persone che non hanno molte chance di vivere una vita dignitosa. Molte famiglie non hanno i mezzi per accudire questi familiari ‘diversi’. In altri casi i disabili, e soprattutto quelli mentali, sono considerati una specie di maledizione. E così Sister July e le consorelle con il sari bianco e le bande azzurre fanno quello che umanamente sembra impossibile. Consentire a qualche decina di persone, uomini e donne divisi in due piccole case, di con durre comunque una vita dignitosa.
Di disabili si occupa anche Marianne, laica, cristiana, della cooperativa L’Arch. Nei locali della parrocchia copto cattolica di Alessandria si fanno saponette, candele, lavori con i tessuti. Piccole attività manuali per dare un senso alle lunghe giornate di chi vive la disabilità. “Qui al Nord possiamo accogliere oltre ai cristiani anche giovani musulmani. Ma in Alto Egitto, al Sud, questo non è possibile. Saremme accusati dai musulmani di proselitismo”.
Suor Sabah è dell’ordine delle Minime Francescane del Sacro Cuore ed è la ‘mamma’ di una ventina di ragazze. Trai 5 e i 18 anni le giovani che vivono nel Collegio delle suore hanno un passato difficile: o sono orfane o con famiglie troppo povere. “Ma qualcuna invece ha il padre violento. Le madri in questi casi possono far poco e le portano a noi di nascosto”, racconta la monaca spiegando che le giornate quotidiane non sono sempre facili con il timore che qualcuno venga con forza a reclamare la figlia-schiava.
Monastero
La grande cattedrale nel deserto
Antonios e Khaled fanno gli onori di casa nel prefabbricato in lamiera, dove si fanno le riunioni operative, si sosta per un caffè alla turca, si vestono elmetti e abiti da lavoro. Fuori un cantiere con 3mila operai che lavorano incessantemente su due turni al giorno per tirare su la più grande cattedrale cristiana del Medio Oriente.
Siamo in quella che sarà la Nuova Cairo, la futura città amministrativa a una quarantina di chilometri dalla attuale capitale egiziana. Al momento qua e là solo cantieri sparsi nel mezzo del deserto rosso. Ma la “Natività di Cristo”, così si chiama la nuova imponente chiesa, sara’ una cattedrale nel deserto solo in senso geografico. Nonostante le gru e le trivelle, qui già si celebra messa. L’inaugurazione c’è stata per il Natale dei Copti, la notte dello scorso 6 gennaio, nella messa presieduta da Papa Tawadros che ha fatto il solenne ingresso nella parte già agibile con il presidente Al Sisi. Poi ogni venerdì (giorno festivo per uffici e scuole) viene una parrocchia a turno.
Antonios e Khaled non hanno neanche 30 anni, il primo è un ingegnere cristiano, l’altro un maggiore dell’esercito, musulmano. Parlano lingue straniere, sanno muoversi tra slide e computer, sono un po’ i ‘pierre’ di questa grande opera voluta da Al Sisi e affidata all’impresa di costruzioni più importante dell’area, Orascom. “Inimmaginabile solo fino a qualche tempo fa”, sussurra il frate francescano che accompagna i giornalisti nella missione in Egitto della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre.
Qui si lavora fianco a fianco, cristiani e musulmani, oltre dodici ore al giorno. Si mangia, si parla, si prega. Ognuno secondo il suo credo. “E’ un lavoro complesso, le indicazioni sono quelle di completare l’opera, ora pronta al 40 per cento, entro l’anno, i tempi sono abbastanza stretti e abbiamo utilizzato tecniche accelerate, per esempio in alcune parti si tira su col cemento prefabbricato”, dice il giovane professionista snocciolando i numeri: 15 ettari di terreno nel quale il luogo di culto prendera’ oltre 10mila metri quadri, la cupola larga 40 metri, un campanile alto 65 metri; si realizzerà anche, la residenza del Papa copto, i parcheggi, i locali di aggregazione; 8mila posti in chiesa. Un’opera ‘faraonica’.
“Il presidente – spiega Khaled, il maggiore dell’esercito – ci ha dato disposizione di agevolare i lavori, rimuovere gli ostacoli burocratici, dare la massima collaborazione alle ditte locali”. E per questo che i caschi blu degli operai si mescolano alle divise miliari. I primi lavorano, i secondi sopraintendono e garantiscono la sicurezza. Stesso schema per la ricostruzione di oltre sessanta chiese che erano state incendiate dai fondamentalisti islamici nel 2013. L’esercito arriva e in tempi rapidi cerca di cancellare i segni dell’odio, della persecuzione alla comunità cristiana, una minoranza di circa 12 milioni di egiziani. E “se la chiesa dell’Immacolata Concezione a Suez e’ stata restituita ai francescani nel giro di dieci mesi, c’e’ anche il caso – riferiscono ai giornalisti italiani – della cattedrale di San Pietro al Cairo, colpita da un attentato dove hanno perso la vita 29 persone, che e’ stata ripristinata dopo tre settimane”. Il 16 dicembre 2016 l’attacco e il 7 gennaio 2017 già la messa di Natale. “Mi ricordo gli operai commossi dall’accaduto, musulmani e cristiani, che hanno lasciato il loro lavoro e sono venuti da ogni parte del Paese per lavorare 24 ore su 24, anche la notte”, racconta Tadros Adel un altro ingegnere cristiano.
I CRISTIANI E AL SISI
Non è difficile comprendere perché la chiesa locale, in Egitto, sia ‘schierata’ apertamente per l’attuale presidente. “Nessuno gli aveva chiesto di costruire la più grande cattedrale del Medio Oriente. Lo ha fatto e basta. Da noi c’è un modo dire per indicare una persona onesta: è ‘un figlio di buona gente’. E io penso che Al Sisi lo sia”, dice mons. Botros, il vescovo copto cattolico di Minia, città del Sud dove i cristiani sono il 40% ma comunque sempre in trincea perche’ e’ da qui che arrivano i leader dei Salafiti e dei Fratelli Musulmani. I patriarchi parlano chiaro. Papa Tawadros II, leader dei copto-ortodossi dice che “Al Sisi ha lavorato molto su due versanti, quello della lotta al terrorismo e quello della lotta per lo sviluppo. Ringrazio Dio che stiamo facendo passi significativi e già ci sono delle cose realizzate”. Anche il patriarca copto cattolico, mons. Ibrahim Isaac Sidrak, conferma: “Ora le cose sembrano andare meglio, soprattutto per l’economia e la sicurezza. Aspettiamo di vedere le nuove elezioni. Certo, il timore di essere colpiti resta”. Al seminario di francescano di Gyza, la città delle piramidi, padre Kamal, il frate ‘guardiano’, dice: “Perseguitati? Discriminati? Direi di no se guardiamo al passato. Ci sono stati momenti in cui non avevamo davvero nessun diritto, neanche quello di camminare per strada”.
IL CANTIERE DELLA CHIESA PIÙ GRANDE DEL MEDIO ORIENTE
La ripresa dei pellegrinaggi
E in questo clima, tra paure e speranze, tra angosce e fede, dal 2018 riprenderanno i pellegrinaggi. Secondo la tradizione infatti l’Egitto è la terra che ha ospitato per oltre tre anni la Sacra Famiglia, Gesù Giuseppe e Maria, in fuga da Erode.
Dal Cairo fino ai monasteri nel deserto, i pellegrini cristiani potranno ripercorrere un itinerario di fede inedito e soprattutto portare la loro vicinanza ad una comunità cristiana, quella copta, colpita in questi anni da tanti attentati sanguinari da parte dei fondamentalisti dell’Islam.
A promuovere i nuovi itinerari di fede sarà l’Opera Romana Pellegrinaggi. Vogliamo “continuare a creare dei ponti”, sottolinea l’amministratore delegato dell’Orp, monsignor Remo Chiavarini. Dal Vaticano è arrivato al Cairo anche un quadro benedetto da Papa Francesco, rappresentante proprio la Sacra Famiglia, dono per Papa Tawadros, il Capo della Chiesa copta egiziana. E’ stata proprio la visita del pontefice, lo scorso aprile, a dare infatti una accelerazione a questo progetto che includerà l’Egitto nel tradizionale circuito della Terra Santa. “La visita di Papa Francesco – conferma il Nunzio apostolico in Egitto, monsignor Bruno Musarò – è stata una benedizione per questo Paese. Il Papa ha colpito per la sua semplicità e vicinanza, ancora tutti ne parlano. Anche il
dialogo interreligioso ne ha guadagnato”. E questo dialogo tra religioni nel Paese potrebbe, secondo il Nunzio, trovare nuovo impulso dalla ripresa dei pellegrinaggi a partire dal prossimo anno. “In questi siti legati al passaggio della Sacra Famiglia – spiega – c’è un grande afflusso non solo di cristiani ma anche di musulmani”, molto devoti, per esempio, alla Madonna, “e l’arrivo di pellegrini dall’estero – dice convinto il diplomatico della Santa Sede – aiuterà senz’altro il dialogo”. E infatti il Grande Imam di Al-Azhar, Mohamed Al-Tayyeb, che ha incontrato la delegazione della diocesi del Papa, ha salutato con favore questi pellegrinaggi di cristiani perchè “l’Egitto – ha detto – è una terra santa, una terra benedetta, ed è benedetto chi tocca la terra d’Egitto”. Anche per Papa Tawadros “il turismo religioso è fondamentale per mandare al mondo un messaggio di pace. Qui l’itinerario della Sacra Famiglia è molto sentito dai cristiani e il primo giugno di ogni anno festeggiamo l’arrivo di Gesù in Egitto. Abbiamo chiese antichissime, tradizioni storiche, e i più antichi monasteri del mondo. Siamo molto contenti anche degli sforzi del governo egiziano per promuovere questo itinerario”.
E’ evidente che i pellegrinaggi religiosi potrebbero anche dare una boccata d’ossigeno a quella che era tra le più importanti industrie del Paese, il turismo, decimata dagli attentati dei fondamentalisti, soprattutto nelle zone delle vacanze degli stranieri.
Ma al di là dei numeri di pellegrini o turisti che potranno arrivare, “per noi – spiega mons. Chiavarini dell’Opera Romana – vuole essere una via per sbloccare rapporti non semplici, tra Islam e cristiani, tra copti e cattolici, e anche tra Egitto e Italia”, dice riferendosi alle difficoltà dopo la vicenda di Giulio Regeni. “I motivi di divisione – aggiunge – sono enormi, vogliamo essere uno strumento di avvicinamento e legami”. Siti del pellegrinaggio saranno il quartiere dell’antico Cairo Copto, come la chiesa dedicata a Maria sulle rive del Nilo; i monasteri nel Wadi El Natrun, in pieno deserto, e le cattedrali del ‘vaticano’ dei copti. E verosimilmente anche le piramidi dei faraoni, che vedono un legame a doppio filo con la storia biblica di Mosè.
Anche l’Unitalsi (Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali) farà da apripista portando quest’anno i suoi pellegrini in questa terra. “Siamo molto felici – dichiara Antonio Diella, presidente nazionale Unitalsi – perché questa iniziativa rappresenta per la nostra Associazione e per i nostri soci, volontari, ammalati e pellegrini, una nuova e affascinante opportunità, un’esperienza che crediamo possa rafforzare il dialogo e l’incontro con un popolo che ha accolto il primo pellegrinaggio della storia cristiana: il viaggio di Gesù, Giuseppe e Maria in terra d’Egitto”.
Ansa-Magazine, 14 Aprile 2018