La straordinaria settimana di diplomazia internazionale che si chiude oggi racconta, tra le altre cose, che Donald Trump sarà anche un lunatico; ma è un lunatico alla Casa Bianca. Ogni atto che compie manda onde alte attraverso il pianeta, come è successo a ogni presidente americano. È però del tutto «eccentrico» rispetto ai predecessori e produce anche un effetto-verità, svela ipocrisie alle quali il mondo si è adattato per anni. Produce sorprese. La sua irruenza, spesso sgradevole, è un po’ come quella del bambino di fronte al re nudo. In poco più di un anno, ha compilato pessimi tweet. Ma ha anche scosso molti scacchieri. Ha creato rischi e opportunità.
Venerdì, Kim Jong-un e Moon Jae-in hanno dichiarato la fine della guerra tra la Corea del Nord e quella del Sud: era congelata in un armistizio dal 1953. Il merito non è del presidente americano: ci sono molte ragioni attorno al 38° parallelo che hanno portato all’incontro storico tra i due leader. E il futuro previsto incontro tra Kim e Trump sarà ancora più incerto e rischioso di quello tra i due presidenti coreani. Senza la pressione della Casa Bianca su Pyongyang (e sulla Pechino di Xi Jinping) dei mesi scorsi, però, è difficile immaginare che la svolta ci sarebbe stata in tempi così veloci. Inattesa.
Nei giorni precedenti, la Washington politica è stata invasa da Emmanuel Macron. Il quale, più prudente di Angela Merkel nel rapporto con gli Stati Uniti, ha avuto un ricevimento trionfale. Il presidente francese ha ribadito la sua idea dei rapporti internazionali, diversa da quella della Casa Bianca. Ma in qualche modo Trump ha ottenuto un’apertura da quello che oggi è un leader di peso in Europa sulla possibilità di rafforzare l’accordo nucleare con l’Iran (più controlli del programma di Teheran, freno allo sviluppo di missili balistici iraniani e maggiore attenzione alle avventure militari del regime fuori dai propri confini).
A Washington, anche Merkel ha usato toni più duri del solito nei confronti dell’Iran. Un altro buon risultato per Trump. Il quale, in Medio Oriente, sta inoltre scuotendo gli equilibri attraverso una nuova relazione con l’Arabia Saudita e in una certa misura con Israele, Paesi preoccupati dell’espansione iraniana nella regione.
In tema di commercio internazionale, l’idea della Casa Bianca di accordi bilaterali, basati sui muscoli, potrebbe diventare un disastro protezionista, dove la regola sarebbe che se un Paese trae vantaggi l’altro ne avrà svantaggi. L’approccio di Trump, però, ha avuto l’effetto (voluto o collaterale è difficile stabilirlo) di esporre pubblicamente ciò che si sapeva da almeno dieci anni ma non si diceva a voce alta: le pratiche anti-concorrenziali, anti-mercato e la logica di potenza della Cina. Attorno a questo, il presidente americano sta raccogliendo più consensi di quel che appare.
Anche in Europa, come dimostra la recente reazione preoccupata di molte capitali all’iniziativa «One Road, One Belt» (la «nuova Via della Seta») di Pechino che di fatto creerebbe un blocco economico-politico dell’Eurasia contrapposto a quello transatlantico. Le nuove sanzioni di Washington contro gli uomini forti di Mosca stanno inoltre creando instabilità nel gruppo di oligarchi che si raccoglie attorno a Vladimir Putin, come segnala la decisione del sanzionato Oleg Deripaska di rinunciare al controllo pieno del suo gruppo dell’alluminio Rusal.
Inoltre, Trump ha varato una riforma fiscale negli Stati Uniti che non è perfetta ma mette le imprese americane su un piede di vantaggio concorrenziale al quale le altre aree del mondo dovranno dare una risposta, se non vogliono perdere quote di mercato e vedere le loro grandi aziende trasferire produzioni negli Usa.
Forse è che gli schemi di potere e intellettuali del passato si erano sclerotizzati. Forse è che l’America minacciata doveva prima o poi reagire. Forse è che il dopoguerra degli Stati Uniti multilaterali è finito. Fatto sta che questa settimana ricorda a tutti che gli Stati Uniti sono ancora la grande potenza. Per quanto lunatico, è il caso di prendere sul serio il loro presidente, di smettere di riderne: per il peggio o per il meglio, sta obiettivamente cambiando il mondo.
Danilo Taino
Corriere della Sera, 30 Aprile 2018