Il 22 maggio 1978 l’approvazione della norma. A tutt’oggi latita la prevista «tutela della maternità». E l’aborto è praticato di più da donne straniere, disoccupate e con meno istruzione.
22 maggio 1978-2018: quarant’anni di legge 194, quarant’anni di interruzione legale della gravidanza, per un totale di poco meno di 6 milioni di bambini non nati. Uno degli aspetti curiosi di questa ricorrenza è che la grande maggioranza degli articoli scritti per l’occasione definisca come successo della legge la diminuzione degli aborti effettuati nel tempo. Se in effetti sono più che dimezzati (dai 187.752 del 1979 agli 84.916 del 2016), sembra un controsenso considerarlo un buon risultato, trattandosi comunque di 6 milioni di vite non sbocciate. Senza contare che i numeri sono falsati dal «contributo» non conteggiato dei farmaci che si definiscono «contraccettivi d’emergenza» (la pillola del giorno dopo e dei 5 giorni dopo) ma che in realtà sono intercettivi o contragestativi, e dunque hanno un potenziale effetto abortivo. Si valuta l’impatto della legge 194, insomma, solo per gli effetti relativi alla seconda parte del suo titolo («… e per l’interruzione volontaria di gravidanza») e non per la prima, ben più ‘pesante’ («Norme per la tutela sociale della maternità»). Allora, prima di addentrarci a nostra volta nei numeri, proviamo a chiederci se la maternità oggi è tutelata più o meno rispetto al 1978. Se, grazie alla legge 194, oggi è vero più di 40 anni fa che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». Qualora dovessimo limitare il bilancio della 194 a questo interrogativo difficilmente daremmo una risposta positiva: quale valore sociale è attribuito alla maternità se nel 2016 il 78% delle richieste di dimissioni ha riguardato lavoratrici madri? Se la copertura degli asili nido raggiunge a malapena il 30% del totale di bambini fino ai 3 anni?
I numeri. Nei primi anni Settanta per far crescere il consenso intorno alla campagna per la depenalizzazione dell’aborto erano state diffuse leggende metropolitane secondo cui in Italia si praticavano da 2 a 4 milioni di aborti clandestini all’anno, con 20-25 mila donne che ne morivano. Numeri irrealistici, tanto che nel 1979, il primo anno intero in cui fu in vigore la legge 194, si registraro- no 187mila interruzioni, poi 220mila nel 1980, fino a un picco di 234.593 nell’anno-record 1982. Da allora il numero assoluto è andato diminuendo fino al 1994, dopo di che è cresciuto un po’, assestandosi per il decennio successivo tra i 140 e i 138mila l’anno. Infine, dal 2005 la diminuzione è stata inarrestabile, fino agli 84.916 del 2016. Nel complesso, 63% in meno in 40 anni.
Quanto conta la nazionalità. Un successo? Dipende dai punti di vista, come abbiamo già scritto. Consideriamo il punto di vista delle donne straniere. I tassi di abortività riferiti a lo- ro, cioè il numero di aborti per mille donne tra 15 e 49 anni, pur essendo in diminuzione (15.7 per mille nel 2015 rispetto a 17.2 per mille nel 2014 e 40.7 nel 2003), in tutte le classi di età restano comunque superiori a quelli delle italiane, anche di 2-3 volte. Dov’è per le donne straniere, più vulnerabili, più povere, più sole, la «tutela della maternità » promessa dalla 194?
La coppia, il reddito, il lavoro: cosa spinge alla scelta di abortire? Nei 40 anni di vigenza della legge 194 si possono azzardare alcune linee di tendenza: se fino alla metà degli anni Novanta abortivano più le donne sposate che quelle nubili (per inciso, sarebbe tempo di aprire una seria discussione sul ruolo del tutto inesistente che la legge 194 attribuisce ai padri), da allora in più le non coniugate presentano un rischio maggiore. L’elemento oggi più discriminatorio nella scelta se proseguire o meno la gravidanza però è quello occupazionale: il tasso di abortività è maggiore tra chi non ha lavoro. La stessa cosa accade per il titolo di studio: dagli anni Ottanta in avanti il tasso di abortività è continuamente cresciuto tra le donne con la sola licenza elementare e al contrario addirittura dimezzato tra le diplomate e le laureate. Lo scrive l’Istat in un allegato all’ultima Relazione del Ministero della Salute sull’attuazione della 194: «Un titolo di studio basso può più che raddoppiare il rischio di ricorrere a una Ivg». Straniere, disoccupate o precarie, poco istruite: si può dire che oggi in Italia l’aborto è sempre più un fenomeno ‘classista’ e che sono più frequentemente le donne maggiormente svantaggiate a rinunciare a un figlio.
E sempre più spesso, nel corso di quattro decenni, si tratta di un primo figlio (il 38% delle Ivg nel 2014 era riferito a donne senza figli, contro il 23,8 per cento del 1980 e il 33,8 del 1990). C’è di che interrogarsi sulla reale volontà di un Paese di «tutelare la vita umana dal suo inizio» così come promesso fin dall’articolo 1 della 194. Se c’è un «successo» della legge, 40 anni dopo la sua approvazione, è la fioritura del fronte di chi ha provato davvero a offrire un’alternativa all’aborto. Per una singolare coincidenza, il Movimento per la Vita è nato lo stesso giorno della legge 194, il 22 maggio, ma 3 anni prima, con il primo Centro di aiuto alla vita (Cav) a Firenze. E oggi conta 650 tra movimenti locali, Cav e Case di accoglienza. Queste sì, a tutela della vita fin dal suo concepimento.
Antonella Mariani
Avvenire, 26 aprile 2018