La legge sul biotestamento, anche dopo la sua approvazione, ha incontrato dissensi e discussioni in diversi settori della società, ed è stata interpretata in modo assai difforme.
La legge sul biotestamento, anche dopo la sua approvazione, ha incontrato dissensi e discussioni in diversi settori della società, ed è stata interpretata in modo assai difforme. Essa presenta alcune linee guida perché si affermi e si consolidi un nuovo rapporto tra medico e paziente, e perché la formazione dei medici e del personale sanitario sia ispirata ai princìpi della tutela della vita e della salute, del consenso libero e informato che deve guidare la scelta delle cure e delle terapie. Tuttavia, anche le interpretazioni più positive della legge evidenziano i suoi lati negativi, il suo essere complessivamente – come ha scritto Giuseppe Anzani – una “legge grigia“, che come tale dev’essere applicata in bonam partem, evitando applicazioni e letture in malam partem.
Ciò vuol dire che insieme a profili da condividere, la normativa presenta lati oscuri da superare. Non desta stupore quindi se si può essere al contempo sostenitori di alcune parti della legge, e insieme convinti critici di altre disposizioni. S’è detto, nel corso dei lavori preparatori, che siamo di fronte a una legge di princìpi, piuttosto che un’elencazione di situazioni, soprattutto per lasciar spazio all’autonomia del paziente e alla professionalità del medico. È vero, però, che alcune facoltà previste in modo acritico, unite a silenzi e ambigui interstizi normativi, possono provocare l’implosione del sistema almeno in situazioni-limite che non vanno ignorate.
Due punti centrali della legge, uno chiaro l’altro opaco, sono come dei varchi capaci di agevolare lo scivolamento verso forme di eutanasia omissiva. Mi riferisco alla previsione dell’articolo 1, comma 6, per il quale «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa del paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo, e in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile o penale». E all’articolo 4, comma 5, per il quale il medico può disattendere le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat) solo «qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla situazione clinica attuale del paziente», oppure «se sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento». Qui si delineano, di fatto, possibilità reali che possono presentarsi nella quotidianità e nella congerie dei casi di urgenza, per le quali il medico è sottoposto a decisioni e scelte del paziente, quindi anche a non fare nulla, con il rischio di provocare effetti eutanasici e ipotesi di abbandono di chi è bisognoso di cure, fino a debordare in situazioni oggi non prevedibili. Il punto, invece, sul quale la legge è chiarissima è quando considera in modo netto nutrizione e idratazione artificiali veri trattamenti sanitari, senza operare distinzione alcuna, quindi rifiutabili in linea di principio dagli interessati. S’apre così un ulteriore varco, soprattutto per ipotesi di stato vegetativo persistente, o di malattie gravissime come quelle di cui si occupa la stampa in questo periodo, nelle quali l’inerzia del medico può provocare questioni etiche di grande rilievo.
Si presenta, a questo punto, il tema dell’obiezione di coscienza, che costituisce un potenziale vulnus della legge, essendo stato escluso un suo richiamo diretto, senza ragione. S’è detto che l’obiezione di coscienza non potrebbe neanche porsi perché nessuna disposizione normativa implica comportamenti inaccettabili per gli operatori sanitari. Tale presunta inutilità deriverebbe da quell’inciso normativo per il quale, nell’eseguire le disposizioni del paziente, il medico è esente da responsabilità civili o penali, e perché può rifiutare di compiere atti contrari a norme di legge richiesti dal paziente. Ma queste affermazioni sono del tutto prive di fondamento, e portano a opposta conclusione. La previsione dell’esenzione da responsabilità civili e penali conferma l’esigenza dell’obiezione: la quale nasce proprio quando un determinato atto, lecito per legge, è precluso dalla coscienza, e quando il contenuto di un atto gravemente omissivo (con le sue conseguenze) impone al medico, contro la sua coscienza, di legittimare o partecipare al passaggio concreto verso l’eutanasia.
Dopo l’approvazione della legge, è stato affermato in sede ministeriale, che si farà in modo di garantire il diritto all’obiezione nell’ambito della sua applicazione, anche con l’emanazione di opportune normative secondarie. Ciò può ritenersi positivo, ma si deve ricordare che il fondamento dell’obiezione di coscienza ha carattere costituzionale, e dimensioni generali, essendo essa esercitabile in ogni struttura pubblica o privata ogniqualvolta il medico si trovi a dover agire contro la sua coscienza. Essa ha base costituzionale, perché scaturisce dal rispetto della libertà religiosa e di coscienza, dal dovere di non agire contro il diritto alla vita che è al vertice dei diritti costituzionali, e anche per questa ragione è prevista nei codici di deontologia in termini generali.
Da ciò deriva una conseguenza molto rilevante. L’obiezione di coscienza assume un significato decisivo per una normativa che, anche nelle interpretazioni più miti, presenta zone opache che possono essere interpretate in modo errato. E per questa ragione essa è esercitabile non soltanto in alcune strutture private, in ragione della loro identità, ma dev’essere consentita a ogni operatore sanitario che non intenda partecipare a scelte che possano intaccare o mettere a rischio la vita delle persone. Né va dimenticato, anche alla luce delle dolorose recenti situazioni verificatesi in altri Paesi, che l’obiezione di coscienza costituisce un limite etico invalicabile oltre il quale la legge non può andare e non può obbligare: ciò anche per evitare che alla persona, alla famiglia, ai medici, possano sostituirsi volontà aliene guidate da princìpi estranei al nostro sentire comune.
Carlo Cardia
Avvenire.it, 28 aprile 2018