Nel luglio 2015 Rohani disse che il paese aveva voltato una pagina della sua storia. Delle grandi attese sul deal nucleare però non resta nulla. Gli iraniani sono molto scontenti perché i soldi non sono stati investiti abbastanza nell’economia del paese e la povertà è peggiore rispetto a tre anni fa.
La Siria, trascurata a favore del deal, è diventata la questione che definirà il primo quarto di questo secolo ed è diventata il campo di una battaglia per ora poco visibile tra Iran e Israele.
Roma. Quando nel luglio 2015 l’Iran e sei potenze mondiali firmarono l’accordo sul nucleare per una durata teorica di quindici anni c’erano aspettative enormi. Il primo ministro iraniano, Hassan Rohani, disse che il paese aveva voltato una pagina della sua storia, la gente scese nelle piazze a festeggiare e ci furono caroselli di macchine nella capitale Teheran. Due anni prima Rohani era stato “eletto” proprio con il mandato popolare di limitare il potere dei falchi che non volevano compromessi con la comunità internazionale – “eletto”, s’intende, in un sistema bloccato in cui la politica è fatalmente sottomessa al potere della classe religiosa – e di arrivare a un accordo con l’America, e come prima cosa aveva detto che per il paese era cominciata “una nuova era”. L’idea portante dell’accordo firmato due anni più tardi era questa: finalmente si presentava la grande occasione di normalizzazione per l’Iran, che grazie al congelamento della ricerca sul nucleare non sarebbe più stato trattato come uno stato paria dalla comunità internazionale, si sarebbe integrato nell’economia mondiale con tutte le sue enormi risorse energetiche, si sarebbe aperto al mondo e forse avrebbe dimenticato – o perlomeno allentato – la cupa militarizzazione della società. Tutte queste cose non erano ben viste dall’ala più falca della politica iraniana, legata ai Guardiani della Rivoluzione, ma c’era stata una campagna di persuasione da parte della fazione meno dura per dire che i vantaggi avrebbero fatto dimenticare tutto il resto almeno fino al 2030. Si dice che Rohani per convincere la Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, della bontà del deal atomico abbia organizzato una presentazione privata di tre ore a base di Power Point. Le slide disegnavano un futuro nero da evitare a tutti i costi: “In dieci anni se le sanzioni continueranno l’Iran diventerà come il Bangladesh”. E infatti Khamenei dopo l’accordo aveva lodato pubblicamente “la nostra squadra di negoziatori”. Il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, che in quei giorni era asceso allo status di rockstar della diplomazia internazionale, si fece un selfie trionfale assieme ai giornalisti iraniani sull’aereo che lo riportava a casa da Vienna. Il suo omologo americano, John Kerry, si presentò ai giornalisti sul suo aereo imbracciando una delle stampelle come fosse un mitra, era caduto qualche giorno prima mentre si allenava in bicicletta e c’era chi aveva temuto che tutto sarebbe saltato a causa di quella caduta. Anche dall’altro lato si festeggiava. L’accordo con l’Iran era il traguardo storico che l’Amministrazione Obama aveva puntato fin dall’inizio dei due mandati e a cui aveva lavorato a lungo. Tutti gli altri dossier internazionali erano stati trascurati, incluso quello siriano. Molti commentatori si erano accorti che Washington era riluttante a prendere decisioni che riguardavano la Siria proprio per non interferire con i negoziati – che per molto tempo erano stati segreti – con l’Iran, che è un alleato strategico del presidente siriano Bashar el Assad. La lunga neutralità rispetto alla catastrofe in Siria potrebbe essere stata una scelta spiegata dalla volontà di raggiungere a tutti i costi un deal atomico con Teheran. E per quanto riguarda l’Unione europea, la voglia di arrivare a un accordo era ancora più alta anche per motivi economici. Un anno dopo la fine delle sanzioni gli scambi commerciali tra Europa e Iran erano già cresciuti dell’ottanta per cento. Com’è finita l’abbiamo visto ieri. Gli iraniani sono molto scontenti perché i soldi non sono stati investiti abbastanza nell’economia del paese e la povertà è peggiore rispetto a tre anni fa. La Siria, trascurata a favore del deal, è diventata la questione che definirà il primo quarto di questo secolo ed è diventata il campo di una battaglia per ora poco visibile tra Iran e Israele. Gli europei che speravano di fare affari in Iran ora dovranno fare i conti con le sanzioni americane che tornano, come ha detto il presidente americano Trump, “in full effect”. La comunità internazionale deve fare i conti con una situazione tutt’altro che risolta o più pacifica. La resa dei conti contro i sostenitori del deal sarà cruenta.
L’Amministrazione Obama è stata rimpiazzata e quindi sarà una faccenda relativamente indolore, ma Rohani è stato rieletto nel 2017 e in pratica è all’inizio del suo secondo mandato. Le sue aspirazioni a diventare Guida Suprema sono distrutte e la fazione dei duri si prepara a prendere ancora di più il controllo della linea politica del paese.
Daniele Raineri
Il Foglio, 9 Maggio 2018