Le operatrici dei Centri aiuto alla vita: si è creduto di guadagnare una libertà, oggi se ne parla come di un diritto, ma è stato banalizzato quello che per la donna resta un trauma.
«Se la legge permette di abortire vuol dire che è un diritto e quindi si deve avere la possibilità di usufruirne». Dopo quarant’anni, da quando cioè è stata promulgata la legge 194 sulle norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza (22 maggio), se da un lato è cresciuta la determinazione delle donne che chiedono di abortire, d’altra parte si è persa la cognizione della gravità dell’atto, equiparato erroneamente a uno dei tanti diritti ormai acquisiti. Ecco perché per le volontarie ‘storiche’ del Movimento per la vita italiano, impegnate nei Centri di aiuto alla vita per dare supporto alle mamme in difficoltà, la vera sfida per contrastare l’aborto è innanzitutto culturale.
«Oggi parlare di aborto non serve più – è la provocatoria premessa Bruna Rigoni, dal 1979 volontaria del Cav di Bassano del Grappa, nel Vicentino –. All’inizio, quando è stata varata la legge 194, molti rimasero scioccati, ma da allora la sensibilità è cambiata molto. Nel corso degli anni ci si è assuefatti a questo tema, le persone sembrano aver smarrito la percezione di cosa sia davvero la vita e cosa la morte. Per questo serve un’informazione sul rispetto della vita».
Negli anni 70, «con il femminismo, la donna voleva essere libera di decidere, invece si è aperto il vuoto. E adesso c’è un vuoto nei confronti della vita. Bisogna creare una nuova sensibilità nelle persone, dobbiamo divulgare la cultura della bellezza della vita. Ma occorre coinvolgere le strutture. Quando vado nelle scuole – prosegue Rigoni – parlo sempre della bellezza della vita, della bellezza che si porta in grembo. Se ricordo invece che in 40 anni nel nostro Paese ci sono stati 6 milioni di aborti e che ogni due minuti viene ucciso un bambino i ragazzi sembrano quasi disinteressati».
Aperto un anno dopo l’approvazione della legge, il Cav di Bassano del Grappa finora ha salvato più di 2mila bambini. «Ogni anno aiutiamo un centinaio di donne, sosteniamo i bambini fino ai tre anni, diamo il latte fino ai 6 mesi a quelli che hanno bisogno, e poi insegno alle mamme come accudire i bambini, come fare le prime pappe. Le donne sono anche inesperte». Rosella Antonelli, del Cav di Cassano all’Ionio (Cosenza), volontaria dal 1985, nota la stessa leggerezza nella richiesta di un’Ivg. «Da quando c’è la legge si è banalizzato l’aborto, nel senso che ciò che è permesso per legge si pensa si possa fare sempre e comunque. Noi per questo cerchiamo di lavorare nelle scuole proprio per spiegare che la vita c’è e comincia dall’inizio».
Nell’atteggiamento delle donne di certo si constata maggiore consapevolezza, grazie soprattutto ai numerosi strumenti di comunicazione. «Forse un po’ più di informazione c’è – racconta Antonelli –, le donne cercano le immagini su Internet, però non cambia l’animo. L’insensibilità è sempre la stessa, prevale l’individualismo». I volontari calabresi cercano di promuovere la vita creando reti. «Lavoriamo con il passaparola, abbiamo una convenzione con l’ospedale a Castrovillari, facciamo volontariato anche lì. Al consultorio poi ci offriamo di ascoltare le donne che hanno chiesto il certificato per l’aborto volontario, per dialogare con loro. Emerge tanta povertà, molte donne si vedono costrette ad abortire spinte proprio dal bisogno». Da quando è stato aperto il Cav, 33 anni fa, si contano circa 343 bambini nati. «Per quanto riguarda le straniere – continua Antonelli – abbiamo osservato che le donne dell’Est europeo sono meno sensibili al tema, forse perché vengono da Paesi a lungo soggetti a regimi totalitari, le donne marocchine invece spesso vogliono solo un aiuto ma non chiedono di abortire».
Dopo la promulgazione della 194, tra i tanti che si batterono perché fosse abrogata c’era anche Maria Fanti, responsabile del Cav e della casa di accoglienza di Viterbo: «Ci attivammo già con la raccolta di firme per il referendum del 17 maggio del 1981 – ricorda –. Abbiamo contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica proprio su questa problematica cercando di far conoscere la realtà dell’aborto. La percentuale di Viterbo fu del 36 per cento, la più alta. Per riuscirci battemmo a tappeto il territorio insieme alle associazioni che all’epoca ci diedero man forte. Aprimmo anche le nostre porte di casa, ospitando ragazze costrette a fuggire dall’ambiente familiare perché obbligate ad abortire. E così, nel 2001, è nata l’idea della casa di accoglienza dedicata a Madre Teresa di Calcutta». Dal 1998, da quando sono stati elaborati i dati dei Cav a livello nazionale, sono state aiutate oltre 1300 donne. Ma sono molte di più, in realtà, se si sommano anche quelle degli anni precedenti. Nei 17 anni della casa di accoglienza, poi, sono state ospitate 137 mamme con 144 bimbi.
«Oggi è cambiata la realtà sociale – prosegue Fanti –. Sono disponibili molti strumenti che a suo tempo non c’erano, come i cellulari, o la possibilità di comunicare in chat. C’è maggiore consapevolezza di cosa si va a fare. D’altra parte l’informazione trovata via Web porta pure la gran parte delle donne a vivere nell’ignoranza. C’è una banalizzazione di cos’è l’aborto. E ne è una riprova purtroppo la diffusione, soprattutto fra le giovanissime, delle pillole del giorno dopo, vendute ormai come farmaco da banco senza neppure bisogno della ricetta medica».
Graziella Melina
Avvenire.it, 3 maggio 2018