In Italia l’aborto è divenuto un dogma, un tema rispetto al quale non è possibile aprire una riflessione con tanto di evidenze scientifiche né tanto meno poter esprime la propria contrarietà. Il caso dei manifesti di CitizenGo censurati dal Comune di Roma.
In Italia l’aborto è divenuto un dogma, un tema rispetto al quale non è possibile aprire una riflessione con tanto di evidenze scientifiche né tanto meno poter esprime la propria contrarietà. Secondo il copione del pensiero politicamente corretto si deve parlare e si possono sostenere pratiche proibite dalla nostra legislazione come l’utero in affitto, la compravendita di seme e le adozioni per le coppie gay, ma guai ad affermare che un bambino è già formato a 12 settimane o che nel mondo sono abortiti soprattutto i feti femmina.
Insomma, dire che la libertà di espressione è seriamente minacciata non è un’esagerazione, viste le cesure istituzionali che hanno messo il bavaglio alle campagne pro life lanciate CitizenGo e ProVita.
Da questo punto di vista il più solerte guardiano del pensiero unico è sicuramente il Comune di Roma. Nella serata di martedì il Campidoglio ha notificato la “diffida” alla società concessionaria per la rimozione della campagna #stopaborto di CitizenGO, appellandosi al comma 2 dell’art.12 del Regolamento della Pubblicità, che cita “è vietata l’esposizione pubblicitaria il cui contenuto sia lesivo del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili…”. Un articolo – evidenzia l’organizzazione pro life in una nota – che, per come è posto, mette in mano all’Amministrazione Comunale uno strumento di censura a tutti gli effetti, lasciando ampi spazi di interpretazione.
Fatto sta che 50 cartelloni bifacciali di due metri per due nel centro di Roma sono stati rimossi nel giro di 24 ore. D’altra parte questi manifesti riportavano una scritta insopportabile, “L’aborto è la prima causa al mondo di femminicidio”, che ha suscitato le reazioni scomposte di femministe e ultra progressisti che hanno indetto petizioni per la rimozione dei cartelloni. Peccato che lo slogan oltre a scuotere le coscienze ricorda una sconvolgente realtà, ovvero quella degli aborti selettivi dei feti femmina. Una consuetudine in Paesi come Cina e India e in molte nazioni asiatiche dove è più forte la spinta al controllo delle nascite. Fenomeno che sta creando diversi problemi sociali e delle incolmabili disparita di sesso nella popolazione, che vanno a discapito proprio delle donne. Un dramma che dovrebbe essere denunciato ogni giorno che passa da chi ha veramente a cuore il benessere delle donne di tutto il mondo.
Solo un mese fa, sempre nella capitale, la censura era caduta su un’altra campagna che si limitava a riportare delle verità scientifiche inconfutabili: il manifesto di ProVita, esposto su un’intera facciata di un palazzo a via Gregorio VII, che riportava l’immagine di un feto di 11 settimane e alcune didascalie che spiegavano che il cuore e tutti gli organi sono già presenti in quel momento della gestazione. Anche in questo caso si trattava di verità ritenute lesive delle libertà individuali.
“Di fatto, si dice che oggi non è lecito fare campagne contro l’aborto a Roma, a pena di sanzioni amministrative. È una violazione delle libertà costituzionali inaudita, che dimostra l’esistenza di un regime di pensiero sui temi bioetici che non tollera diversità di vedute”, afferma Filippo Savarese, direttore di CitizenGo Italia, rassicurando tutti gli attivisti che l’organizzazione non si farà intimorire e che anzi rilancia con una nuova campagna di affissioni in cui si ricorda che “I diritti civili nascono nel grembo materno”. Poiché “non è possibile rivendicare nessun diritto civile – vero o presunto – se prima non si riconosce il diritto alla Vita di tutti contro l’ideologia abortista”.
Nelle stesso ore è tornato nel mirino del solito circo arcobaleno-progressista anche il manifesto di Pro Vita. A Genova il cartellone con il feto di 11 mesi è stato affisso martedì in corso Buenos Aires. Il Coordinamento Liguria Rainbow, associazione di Lgbt e femministe, l’ha definito “offensivo, colpevolizza le donne che scelgono di seguire ciò che la legge permette”. Il Pd, con un comunicato ha chiesto che “sul caso di Genova intervengano il Garante dell’infanzia, perché questa pubblicità è lesiva nei confronti dei bambini, e il Difensore civico, considerato che immagine e messaggio scelti costituiscono, a nostro giudizio, un attacco alle donne in un ambito personale che richiede invece sensibilità e delicatezza”. L’amministrazione di centro destra, guidata dal sindaco Marco Bucci, non ha però risposto alle pressioni di questi ambienti.
Polemiche e attacchi anche in Umbria. A Perugia il manifesto di ProVita è stato imbrattato mentre a Magione, nei pressi del lago Trasimeno, l’amministrazione comunale ha ordinato la rimozione dei manifesti ideati da ProVita e affissi dalla locale comunità parrocchiale. Le motivazioni ricalcano quelle del Comune di Roma: “Tali contenuti e immagini che producono un ingiustificato allarme sociale […] ledono il rispetto dei diritti individuali ed inviolabili della persona tutelati dal Titolo I della Costituzione”. Per rispondere a questa offensiva ProVita invita a diffondere sui social la campagna #adifesadellavita.
I manifesti pro life non parlano ma stanno facendo un rumore incredibile che sale fino al parlamento. A muoversi è stato il senatore della Lega Simone Pillon, già membro del Family day, che, dopo la nuova censura ordinata da Roma capitale contro CitizenGo, ha predisposto un’interrogazione parlamentare urgente “per sapere se sia ancora lecito nel nostro Paese manifestare le proprie idee in favore della tutela della vita umana fin dal concepimento”.
Nel frattempo sarà possibile tornare a farsi sentire nelle strade. Sabato prossimo, a Roma, torna infatti la Marcia per la Vita.
Luca Paci
La Nuova Bussola Quotidiano, 17 maggio 2018