Nel gennaio del 1998 l’archivio della Congregazione per la dottrina della fede — ente che custodisce gli archivi storici dell’Inquisizione romana, della Congregazione dell’Indice dei Libri Proibiti e del tribunale dell’Inquisizione di Siena — inaugurava ufficialmente l’ammissione degli studiosi alla ricerca aprendo i propri fondi antichi alla libera consultazione. In una solenne giornata tenutasi presso l’Accademia nazionale dei Lincei e presieduta dall’allora prefetto de dicastero, il cardinale Joseph Ratzinger, si dava avvio a un percorso ora lungo due decadi. Per commemorare il ventennale di quell’avvenimento, che ha segnato un’importante svolta negli studi sull’Inquisizione romana, la direzione dell’Archivio ha organizzato un convegno internazionale di studi intitolato L’inquisizione romana e i suoi archivi.
A vent’anni dall’apertura dell’Acdf in programma dal 15 al 17 maggio presso la biblioteca del Senato della Repubblica, situata all’interno della cosiddetta Insula Domenicana di Santa Maria sopra Minerva, che è strettamente legata alle vicende storiche attinenti alla congregazione del Sant’Uffizio e dell’indice dei Libri Proibiti. Già dieci anni fa si era svolto a Roma un convegno che aveva fatto il punto sul progresso degli studi dopo due lustri dall’apertura dell’archivio: l’incontro attuale punta a proseguire lungo questo percorso promuovendo un nuovo bilancio dei risultati raggiunti. Al convegno, che costituisce anche il quarto appuntamento del ciclo Memoria Fidei, inaugurato nel 2013 come un foro stabile di collaborazione e aggiornamento tra gli archivi ecclesiastici, partecipano quaranta studiosi provenienti da vari paesi d’Europa, dagli Stati Uniti e dal Canada. I lavori saranno introdotti dal saluto dell’arcivescovo Francisco Luis Ladaria Ferrer, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cui seguirà la prolusione, di cui anticipiamo ampi stralci, del codirettore del centro di ricerca sull’Inquisizione dell’università di Trieste.
Gli studi che utilizzavano processi dell’Inquisizione in Italia riguardarono per molto tempo gli eretici per antonomasia, cioè gli aderenti alla Riforma, alcuni personaggi molto importanti e in piccola parte le streghe e altri movimenti e individui del dissenso. Ora invece ci sono ricerche anche sugli inquisitori e sull’istituzione stessa. Questo significativo passaggio non è avvenuto per caso. Gli storici a un certo momento hanno cominciato a porsi domande critiche sui documenti: qual era l’attendibilità dei verbali scritti dai notai? Quanta curiosità culturale avevano gli inquisitori e come interrogavano gli imputati e i testimoni? Chi erano gli inquisitori? C’erano altri giudici della fede?. Quali procedure seguivano? La ratio di queste nuove questioni è semplice: se non si conosce l’organizzazione del Sant’Ufficio e il modus operandi dei giudici, si rischia di alterare o distorcere o addomesticare quello che dissero gli inquisiti. Mi paiono problemi fondamentali per chi vuole utilizzare i documenti dell’Inquisizione per qualsivoglia ricerca. Su queste questioni non c’è un’ortodossia unica e io espongo la mia idea, lasciandola giudicare dal vostro tribunale se sia un’eresia oppure no.
Comincio dai notai, personaggi del tutto negletti fino a poco tempo fa. La leggenda dei notai dell’Inquisizione, che avrebbero regolarmente rispettato le norme previste dai manuali, registrando tutto, anche i sospiri, non regge. Essi sarebbero stati un gruppo professionale corretto sempre e dovunque, caso più unico che raro nella storia italiana. Non fu certo così. Ad esempio i notai di Venezia città non brillarono sempre per cura e rispetto delle regole, anzi tenevano spesso così male gli archivi che nel 1396 furono istituite delle visite periodiche, nel 1596 furono aumentate a due volte l’anno, per evitare irregolarità, falsificazioni, imbrogli e disordini.
Anzitutto i verbali del Sant’Ufficio non sono tutti uguali, perché i notai li stendevano in due modi: o direttamente durante le sedute o in seguito servendosi di appunti preparatori o minute. Le correzioni apportate in un sistema o nell’altro sono di tipo diverso. Queste minute venivano naturalmente distrutte, ma una è stata casualmente conservata ed è stata ritrovata a controprova di questa seconda pratica. Essa permette di analizzare il passaggio all’originale, passaggio che presenta luci e ombre. Comunque i notai potevano sbagliare date, anche quella dello stesso giorno in cui scrivevano, nomi dei testimoni, a volte non riportavano il tenore delle domande, conservavano la minuta o una copia e non l’originale di certi atti (forse era l’uso del tempo), non registravano alcune domande e risposte, riunivano più risposte in un’unica. Facevano talvolta dire all’imputato cose diverse da quello che aveva detto. Ad esempio Menocchio avrebbe parlato di un figlio di Gesù Cristo: «Christo ha voluto che mori il Fiol suo», un apax legomenon, dove al posto di Cristo si deve invece leggere Dio, perché la domanda seguente recita: «Christo non è morto per li peccati nostri?», dico Cristo, il Figlio di Dio, non il figlio di Cristo. D’altra parte c’è la prova che i notai trascrivevano con una certa precisione una parte delle parole che erano pronunciate durante le sedute. Quindi un giudizio ambivalente sul loro operato, che non va visto a priori come costantemente irreprensibile, ma va sottoposto alla critica esterna e interna. I notai del Sant’Ufficio nel Cinquecento erano laici, più tardi erano frati dello stesso ordine degli inquisitori. Cosa può cambiare a questo punto nella lettura dei documenti inquisitoriali? Nulla, se si ritiene che riproducano fedelmente la verità delle parole dette e dei fatti riferiti, molto, se si pensa che i verbali siano fonti storiche da vagliare accuratamente come tutte le altre, a cominciare da un’attenta analisi filologica.
Queste osservazioni, già pesanti, non sono niente a confronto di quelle che fa Thomas Mayer sull’attendibilità dei Decreta Sancti Officii e sui notai della Congregazione, studiati per cinquant’anni, dal 1590 al 1640. Egli spiega che i Decreta sono incompleti e disordinati, anche se in modo inferiore ai documenti di altri organismi papali, che alcune decisioni non furono registrate o furono messe in modo inconsueto nei fascicoli degli imputati, che interi processi non finirono al posto giusto o furono perduti. Inoltre nelle parti segrete delle sedute non era presente il notaio, ma l’assessore e quindi era possibile che nei Decreta finissero degli errori di omissione o commissione fatti da uno o dall’altro, che non tutti gli elementi dei Decreta si trovano sempre nell’agenda preparatoria, che queste agende potevano venir modificate con aggiunte talvolta radicali e non si sa da chi, che la capacità professionale dei notai era varia, che in teoria non dovevano essere pagati, ma in pratica non era così, che il costo del loro lavoro doveva essere tenuto basso. Per verbalizzare le sedute dei Decreta i notai prendevano appunti, che poi trasformavano in un testo più completo, che veniva infine copiato a distanza di tempo nei registri. Talvolta il testo intermedio non veniva compilato. Il notaio che stilava la versione definitiva poteva essere diverso da quello degli appunti, con problemi di lettura corretta. I registri sono spesso incompleti non solo per singoli atti, ma per intere sedute, con piena consapevolezza della Congregazione. Le note iniziali possono non corrispondere alla bella copia, gli errori sui nomi sono abbondanti, in alcuni casi la manipolazione dei documenti dipese forse dallo stesso pontefice, altre volte i documenti vennero probabilmente distrutti subito dopo il loro approntamento.
C’è altro ancora di meno rilevante sulle autenticazioni e sulle firme dei notai, sull’archivio iniziato nel 1593 e sull’evoluzione delle forme giuridiche. Ogni commento mi pare superfluo. Mi pare inoltre impossibile liquidare queste questioni come opinabili, comunque irrilevanti per la ricerca e continuare a pensare i notai come angeli del Signore mandati a facilitare le ricerche degli storici.
Ma più che i notai, le figure centrali nella produzione dei documenti inquisitoriali furono i giudici della fede. Erano loro infatti a condurre gli interrogatori e a decidere l’andamento degli atti giudiziari. Atti giudiziari e non processi, per essere corretti. Vorrei a questo punto affrontare il mito della curiosità culturale degli inquisitori. L’idea poteva andare bene quando si sapeva pochissimo del sacro tribunale. I giudici della fede che indagarono con curiosità la cultura degli inquisiti sono considerati tali non per quello che fecero loro, ma per l’atteggiamento di alcuni imputati, che risposero alle domande proponendo affermazioni che non rientravano nelle normali aspettative. Questi giudici che sarebbero stati attenti alla cultura degli inquisiti, se ci furono, furono pochissimi, dato che nella stragrande parte dei casi le risposte degli inquisiti non furono molto originali, a meno che non descrivessero i particolari di pratiche magiche popolari, sospettate di eresia, praticamente poco rilevanti per la qualificazione dottrinale e l’eventuale sentenza.
Certo gli inquisitori potevano in teoria meravigliarsi o restare sconcertati da alcune affermazioni degli imputati e perciò interrogarli a fondo per costringerli a confessare la loro cultura, ma niente di tutto questo traspare dai verbali. Qui sono registrate le domande (non sempre) e le risposte, non le reazioni dei giudici, che lo storico si può immaginare a proprio gradimento. Io credo — ed è una mia convinzione — che nella maggior parte dei casi essi fossero semplicemente dei funzionari, più o meno diligenti e rigorosi, come si vede nelle prosopografie degli inquisitori di Aquileia e Concordia, di Siena e di Roma. Cercavano di fare il loro lavoro, che consisteva nel verificare il grado di prova che avevano le deposizioni dei testimoni e la qualità teologica delle eresie confessate dagli imputati. Gli inquisitori erano di solito maestri in teologia, i vicari dei vescovi dottori in diritto canonico e civile. Forse i loro comportamenti si possono spiegare più semplicemente tenendo conto delle funzioni che svolgevano e delle procedure che seguivano, senza proiettarvi sopra i nostri desiderata. Infatti il loro scopo rimase sempre quello di verificare e valutare le idee eretiche e i comportamenti sospetti di eresia o non di approfondire la conoscenza della cultura degli imputati.
Faccio solo due esempi: nel primo processo contro i due benandanti, l’unico in cui c’è una lunga e dettagliata descrizione delle battaglie notturne, l’inquisitore che li interrogò nel 1580, fra Felice Passeri, non era certo interessato alla cultura popolare, ma voleva dimostrare al vicario patriarcale, polemicamente assente, che non si trattava di magia semplice, di competenza del vicario, ma di magia ereticale, di propria competenza. Quindi cercò in tutti i modi di far confessare agli imputati il sabba diabolico, senza peraltro riuscirvi. È solo per questo motivo che, al di là delle intenzioni di fra Felice, conosciamo molti dettagli del mito dei benandanti, che all’inquisitore non interessarono di per sé, ma solo come spie della partecipazione al sabba. Nella sentenza fra Felice non condannò gli imputati per veemente sospetto di eresia, come previsto dai manuali, ma direttamente per eresia (delatus de heretica pravitate; in multiplici pravitate et haereticalia depraehensum), così il vicario non poteva più accampare pretese sulla competenza. Con la bolla Coeli et terrae del 5 gennaio 1586, Sisto v tra l’altro assegnò tutti i tipi di sortilegio al Sant’Ufficio.
Nel caso del primo processo contro Menocchio l’insistenza e la pervicacia dei due giudici della fede, il vicario generale e l’inquisitore, nel porre le domande su molte dottrine importanti non derivava dalla loro curiosità culturale, ma dal fatto che Scandella era stato accusato da parecchi testimoni di aver espresso tre eresie, la negazione della Trinità, della divinità di Cristo e della verginità di Maria, che erano punibili con la morte al primo processo, anche se l’imputato si pentiva e quindi dovevano essere provate oltre ogni dubbio. Su 150 domande dottrinali, praticamente tutte riguardano questi dogmi e i loro corollari. Ne esulano solo tre nell’ultima seduta, e di nessuna rilevanza: sull’acqua benedetta, sulle processioni e sul paradiso terrestre. Per una «causa gravissima», così definita da Roma, non mi pare un grande tentativo di scandagliare a fondo tutte le eresie dell’imputato. Alla fine tuttavia il vicario generale e l’inquisitore, che avevano raccolto prove più che abbondanti, fecero grazia della vita a Scandella, come scrissero espressamente nella sentenza.
di Andrea Del Col
L’Osservatore Romano, 14 maggio 2018