Via dalla sede storica del Cassero l’Associazione delle lesbiche italiane. Il contrasto nasce da un documento contro la Gpa, le “sex work” e il farmaco blocca-pubertà.
L’invito a restituire le chiavi e a non farsi vedere in giro è un “di più” che si aggiunge al colpo basso dell’espulsione. Sì, perché è stata una vera e propria cacciata quella messa in atto dallo storico circolo del Cassero, avamposto bolognese delle battaglie Lgbt, arcobaleno e omosessuali, nei confronti di Arcilesbica. Alla Salara, vecchio magazzino del sale in via don Minzoni, non c’è più posto per voi, è stato l’ultimatum, comunicato venerdì 11 maggio. Motivi di carattere amministrativo-burocratico, apparentemente, che sono bastate per far perdere la sede nazionale all’Associazione .
Ma sotto c’è di più. C’è che Arcilesbica nazionale nel congresso dello scorso dicembre, lo stesso in cui fu eletta la presidente Cristina Gramolini, affermò idee controcorrente rispetto a tanti temi cari all’universo Lgbt: no all’utero in affitto, no ai farmaci bloccanti della pubertà per bambini e le bambine con comportamenti non conformi alle aspettative di genere; no anche all’istituzione di una assistenza sessuale ai portatori di handicap per non “mercificare la sessualità”, no alla visione della prostituzione come sex work per “non normalizzare l’uso sessuale delle donne”…
Posizioni coraggiose, distanti dal mainstream corrente e pertanto non condivise da tutti, soprattutto dalle organizzazioni gay maschili, che invece sono in prima linea nella rivendicazione dell’utero in affitto. A marzo la sezione bolognese si è disaffiliata da Arcilesbica nazionale per diventare Lesbiche Bologna. Dunque non uno sfratto dal Cassero, ma un “necessario chiarimento”, come ha tentato di spiegare Vincenzo Branà, presidente del circolo. Lo stabile è di proprietà del Comune, che lo ha assegnato a quattro associazioni: Arcigay, Associazioni genitori di omosessuali Agedo, Famiglie Arcobaleno Emilia Romagna e Arcilesbica. Che però oggi si è scissa; di conseguenza “è venuto meno l’unico legame che rendeva possibile la permanenza della sede legale di Arcilesbica” al Cassero. In pratica: non la pensiamo più come voi, ve ne dovete andare…
Cristina Gramolini però non ci sta e ha chiesto un incontro urgente all’assessora alle Pari opportunità e ai diritti Lgbt Susanna Zaccaria: “Siamo consapevoli di avere posizioni autonome che scontentano il gotha arcobaleno -– scrive su Facebook, sotto la foto di una bandiera arcobaleno infangata -. Ci cacciano senza preavviso: non si accorgono di tradire la bandiera rainbow e si scrivere una pagina di storia dell’intolleranza. L’atto ha il significato simbolico di cancellare lesbiche che pensano diversamente, accogliendo solo quelle che accettano la linea egemonica, il gesto sottende un immaginario di annientamento e per noi è un atto di violenza”.
Sullo sfondo c’è l’ormai antico confronto-scontro sull’utero in affitto: gli omosessuali maschi lo sostengono come pressoché unica modalità per avere figli, sebbene a pagamento e in barba alle leggi italiane. Le omosessuali donne sono a loro volta divise: una vasta componente è decisamente contraria, soprattutto per le componenti di mercificazioni del corpo della donna e della stessa maternità.
A questo teme si aggiungono altri elementi di contrasto, gli stessi che dividono il mondo femminista: il più evidente è l’idea che esista un lavoro sessuale (la prostituzione) da tutelare e addirittura promuovere con lo slogan “Sex work is work”. Finché il confronto resta sul piano delle idee, però, può essere produttivo e fecondo. Quando diventa ostracismo ed esclusione, è un altro paio di maniche.
Antonella Mariani
Avvenire.it, 15 maggio 2018