Nel bene o nel male, le leggi segnano la storia dei paesi, specie in quelli cosiddetti di diritto codificato. È il caso dell’Italia dove provvedimenti recenti che hanno avuto importanti ripercussioni sulla vita quotidiana, vengono ricordati con il loro numero — la legge 104 o la 194 ne sono un esempio — o con il nome della persona cui sono, in qualche modo, riconducibili. È il caso, tra le altre, della legge Basaglia, di cui a giorni cade il quarantesimo anniversario.
«Il manicomio è un campo di concentramento, un campo di eliminazione, un carcere in cui l’internato non conosce né il perché né la durata della condanna, affidato come è all’arbitrio di giudizi soggettivi che possono variare da psichiatra a psichiatra, da situazione a situazione, da momento a momento, dove il grado e lo stadio della malattia hanno spesso un gioco relativo». Così nel 1973 — prefando il libro di Maria Luisa Marsigli, La marchesa e i demoni. Diario di un manicomio — Franco Basaglia descriveva la realtà manicomiale. Cinque anni dopo, il 13 maggio 1978, verrà emanata la legge che ha chiuso i manicomi in Italia.
Di Franco Basaglia, Il Saggiatore ha da poco riproposto gli Scritti 1953-1980 (Milano, 2017, pagine 915, euro 42), pubblicati inizialmente da Einaudi in due volumi l’anno dopo la scomparsa dello scienziato. Leggerli, o rileggerli, diventa ora l’occasione per ripercorrere l’esistenza umana e scientifica di un uomo che ha ispirato una delle grandi riforme del Novecento. Non a caso Franca Ongaro Basaglia — moglie, compagna di tantissime battaglie e curatrice del libro — scrive: «Questa raccolta di scritti è la storia di una vita, di un’impresa, di un pensiero». Raccogliendo saggi e interventi che il veneziano Basaglia scrisse e pronunciò tra gli anni Cinquanta e il 1980, poco prima della morte, a legge emanata, il volume ripercorre un cammino che traghetterà la società italiana tra due epoche.
È il 1959 quando, dopo la formazione a Padova, Basaglia arriva all’ospedale psichiatrico di Gorizia: la destinazione, che può sembrare inadeguata rispetto alla costruzione di una carriera universitaria, segnerà invece una tappa cruciale. Divenuto direttore del nosocomio friulano con i suoi 650 ospiti, pur senza alcuna esperienza diretta negli ospedali psichiatrici, Basaglia rifiuta subito la gestione tradizionale del disagio mentale.
Come avveniva pressoché ovunque, anche nel manicomio di Gorizia le prassi sono agghiaccianti: il nuovo direttore dispone l’eliminazione dei mezzi di contenzione meccanica e le terapie di elettroshock, l’abbattimento di sbarre, grate e reti, introduce i contatti con l’esterno e gli psicofarmaci, e cura la riqualificazione del personale. Si tratta di interventi decisamente anticipatori rispetto al panorama del tempo, che portano alla costituzione di una «comunità terapeutica».
Quella che Basaglia cerca è «una risposta valida alla realtà del disturbo psichico». Assetti, regole e consuetudini manicomiali sono invece, a suo avviso, strumenti di una violenza istituzionale in cui egli riconosce un meccanismo segregante e un significato classista. È questo approccio, con i suoi metodi di presunta cura, a impedire un intervento che sia adeguato ai bisogni della sofferenza psichica: il vero scopo del trattamento tradizionale è infatti quello di punire il malato, ritenuto responsabile del suo comportamento antisociale. Se a ciò si aggiunge il fatto che il malato è, di fatto, sempre di bassa estrazione sociale, il quadro è chiaro.
Ribaltando il tavolo, dunque, Basaglia rimette — o forse mette per la prima volta — la persona con disagio mentale al centro della scena. Sottrarlo all’anonimato cui la segregazione lo ha confinato per ascoltarlo, finalmente: se si vuole davvero cercare una cura, occorre innanzitutto conoscere la persona che si ha davanti, non incasellandola in uno schema, ma riattivando la comunicazione.
Basaglia ha le idee chiare. Lavora subito per la distruzione del sistema manicomiale, convinto che isolamento e reclusione aggravino i sintomi della malattia. Già nel 1964, a gran voce, ne chiede l’abbattimento. Nel corso del primo congresso internazionale di psichiatria sociale che si tiene a Londra, presenta infatti una comunicazione inequivocabile, La distruzione dell’ospedale psichiatrico, in cui raccoglie le conclusioni di tre anni di lavoro: la distruzione del manicomio è un fatto urgentemente necessario. Sette punti per una nuova impostazione: introduzione dei farmaci; rieducazione teorica e umana del personale; riannodamento dei legami con l’esterno; abbattimento delle barriere fisiche, «per lo più attuato materialmente dagli stessi malati»; apertura delle porte; creazione di un ospedale di giorno; tentativo di organizzare la vita in esso secondo i concetti di una comunità terapeutica. È dunque nell’esperienza di Gorizia che prende corpo la dimensione più originale del pensiero di Basaglia. Ma il cammino è appena iniziato.
Nel 1968, mentre le discussioni in ambito psichiatrico — e non solo — fervono, e l’opinione pubblica inizia a conoscere questo strano dottore, Basaglia lascia Gorizia. Ha bisogno di tempo per studiare, approfondire e viaggiare: vuole conoscere altri contesti. Sarà prima a New York come docente in visita in un Community Mental Health Center, poi a Parma. Nel 1971, infine, l’arrivo a Trieste.
Divenuto direttore dell’ospedale psichiatrico San Giovanni, per Basaglia è giunto il momento decisivo: occorre concretamente portare il disagio mentale oltre la barriera della separazione. Occorre rompere i confini tra il dentro e il fuori nella certezza che questa sia la sola strada per provare a incamminarsi in un percorso di reale guarigione. Sostituendo alla punizione l’ascolto.
Se il malato in manicomio è infatti l’esito di una reclusione che, esattamente come il carcere, vuole far scontare qualcosa separando gli individui, anche la creazione di istituti che rifiutino approcci e strumenti violenti non rappresenta una soluzione vera al problema. Già nel 1968, intervenendo a Roma al convegno La società e le malattie mentali, Basaglia ammoniva contro il rischio che la stessa comunità terapeutica, nata come esigenza di rinnovamento e rottura, si traduca in una nuova ideologia: le «istituzioni più tolleranti», sotto l’apparenza di rapporti democratici, mantengono il ruolo originario di controllo sociale.
Se dunque Gorizia era stata cruciale per l’elaborazione di un nuovo approccio, è però a Trieste che la svolta si concretizza in qualcosa di irreversibile. È infatti qui che la socializzazione del malato mentale inizia domenica 25 febbraio 1973, quando si spalancano le porte del manicomio di Trieste, qualche anno prima della chiusura ufficiale. È una pagina di storia.
Nel 1976 Basaglia vince il concorso per professore universitario e viene chiamato a Pavia: ma egli — fino ad allora messo ai margini del mondo accademico — non si muove; resta al San Giovanni. Ed è qui che lo trova la nuova legge nel 1978, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, di cui — nonostante le mai nascoste riserve — Basaglia non rifiuterà mai la paternità, benché propriamente illegittima (in realtà, infatti, l’estensore del provvedimento fu Bruno Orsini, psichiatra e politico democristiano). La legge, in sintesi, dispone la chiusura degli ospedali psichiatrici e proibisce di aprirne di nuovi; sposta dagli ospedali al territorio (attraverso centri ambulatoriali e strutture intermedie) il centro dell’intervento psichiatrico; istituisce servizi psichiatrici di diagnosi e cura all’interno degli ospedali. Una legge quadro, di indirizzo, che sancisce anche una svolta sociale e culturale.
L’impianto generale è quello di Basaglia, anche se qualcosa a suo avviso ancora non va. Nel 1980, nella Conversazione a proposito della legge 180 (che chiude il volume edito da Il Saggiatore), Basaglia dice di temere che la legge, collocando la psichiatria all’interno della sanità, finisca per riproporre le «mistificazioni» della disciplina, riconducendo la sofferenza psichica a una connotazione di malattia nell’ambito positivistico della medicina. Il rischio che vede è quello che permangano meccanismi di emarginazione, camuffati sotto l’alibi della malattia e della cura, anche senza lo schermo del concetto giuridico di pericolosità e custodia che improntava la normativa precedente.
«Giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente trovammo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro» scrive Basaglia nel 1979 dopo l’emanazione della legge. La prima al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici e a stabilire il principio — negato da secoli di psichiatria — che le persone con disturbi mentali hanno pieno diritto di cittadinanza. Il nesso è chiaro: se il paziente psichiatrico è una persona a pieno titolo, non può essere né rinchiusa, né variamente torturata.
Quarant’anni dopo questa storica svolta, però, la situazione non è rosea. Se infatti oggi parrebbero non esserci più reti e sbarre, se contenzione ed elettroshock non fanno parte della dotazione, esiste ancora il rischio di nuove forme di esclusione, più nascoste ma identiche nella privazione dei diritti. È il manicomio diffuso in cui la società continua a escludere la persona diversa: Basaglia non ne sarebbe affatto contento.
Giulia Galeotti
L’Osservatore Romano, 7 maggio 2018