«Ma perché dare al sole? Perché reggere in vita; Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura; Perché da noi si dura?»: così cantava il pastore errante dell’Asia nel suo canto notturno pensato da Giacomo Leopardi, riassumendo non già la realtà, ma la interpretazione che della realtà il più delle volte si da, cioè l’idea della inutilità della sofferenza che invade e pervade tutta la vita dalla nascita alla morte.
La sofferenza è qualcosa che tutti sono chiamati a provare almeno una volta nella vita, senza via di scampo: forse non l’amore, forse non l’amicizia, forse non il successo, ma sicuramente la sofferenza, cioè questo antico e misterioso fardello che è adagiato sulle spalle degli uomini fin dalla nascita dei tempi. A metà tra la vita che si consuma e la morte che si approssima, la sofferenza rappresenta quasi l’ipoteca della natura che grava sull’umanità dell’uomo.
Non a caso è sempre stata causa di scandalo per gli uomini di tutte le epoche, i quali hanno cercato in ogni modo di sfuggirvi, di mitigarne la forza bruta, di comprenderla, di darle un senso posto che, almeno a prima vista, non può aver senso una vita fatta per soffrire. Non è certo qui in causa l’eventuale sofferenza come punizione per una eventuale colpa, ma è in causa la sofferenza “gratuita”, cioè quella senza colpa, quella che appunto appare senza senso.
E che dire di Dio? Quel Dio creatore, per chi ci crede, che se ne sta chissà dove, tacendo, latitando, che ha creato il mondo e gli uomini soltanto per beffarsi della loro esistenza, condannandoli alla sofferenza e restando in disparte, magari dietro un angolo di cielo facendo di tanto in tanto capolino per osservarli sadicamente con un ben poco divino sogghigno e contro cui, in ogni epoca, si grida rivolta e vendetta poiché, come ha scritto Friedrich Nietzsche, «il concetto di Dio è stato fino ad oggi la più grande obiezione contro l’esistenza».
La sofferenza, comunque la si indaghi, comunque la si scruti, comunque la si percorra, resta sempre un mistero poiché sempre parzialmente indagata, scrutata e percorsa, in quanto la si può soltanto patire, cioè vivere, portare, o meglio sopportare, come del resto suggerisce lo stesso etimo del verbo soffrire, cioè sub-ferre, ovvero sub-portare, farsene carico con pazienza, inesorabilmente, attimo dopo attimo per quanto eterno sia ogni attimo che perdura nella sofferenza, quindi non già con rassegnazione, ma anzi con tenacia.
Se non si soffre non si esperisce la profondità della sofferenza che va oltre il semplice dolore, quest’altra piaga fisica che accomuna l’umano a tutto il resto del creato, ma se si soffre si accede ad un’altra dimensione, quella propriamente umana, quella che diversifica l’umano da tutto il resto del creato, quella in cui si svela l’autentica natura della vita, e perfino il senso della stessa, cioè la risposta agli interrogativi del leopardiano pastore errante.
Per il dolore ci sono i recettori: lo spillo penetra la cute, il recettore percepisce l’intrusione e la rete nervosa trasferisce bio-chimicamente il segnale elettrico al cervello che lo elabora come dolore; ma la sofferenza? Non ci sono recettori bio-chimici, non ci sono segnali elettrici e neppure le spiegazioni che tendono al determinismo bio-neuro-psichico o al determinismo socio-storico possono dare ragione fino in fondo della sofferenza.
Una vita senza sofferenza, probabilmente non sarebbe neppure auspicabile, perché sottrarrebbe l’essere umano alla sua stessa autenticità, elevandolo al rango degli dei o relegandolo a quello delle fiere prive di ragione, ma in ogni caso privandolo della sua propria natura, del suo ruolo, o meglio, scandalo nello scandalo (l’utilizzo di un tale termine a questo proposito), della sua dignità.
Come può la sofferenza rispettare la dignità? Nonostante ciò che possa ritenersi a prima vista, è proprio nella sofferenza che viene alla luce la dignità come dimostra la già ricordata radice etimologica nel senso di sopportare, cioè di portare su di sé. Ma portare cosa? Portare appunto il carico della propria umanità attraverso il sentiero dell’esistenza. Tuttavia ciò non è che appena la superficie della questione. La sofferenza, infatti, consente alla dignità di risplendere in almeno tre sensi.
In un primo senso riguardo alla dimensione della essenza umana, cioè secondo un significato ontologico, poiché la sofferenza esprime un diretto rinvio alla natura creaturale dell’essere umano, che non si è dato da sé, ma che proviene da altri, da altro e ad altro è destinato.
In un secondo senso deve porsi attenzione al carattere esistenziale della sofferenza che traduce la dignità dell’essere umano come essere caratterizzato da una strutturale finitudine in cui la sofferenza assurge a monito quotidiano e diuturno di tale connaturata limitatezza contro il rischio di dimenticarsene declinando verso forme di “titanismo morale”.
In un terzo senso, infine, la sofferenza rivela la dignità dell’uomo poiché disvela la profondità etica dell’essere umano, cioè il suo essere costituito in modo tale da vivere secondo la sua natura prettamente relazionale, secondo il suo essere un essere-con, un essere-con-l’altro, per esempio portando anche parte dell’altrui sofferenza: così dovrebbe accadere, per esempio, nel caso dell’autentica amicizia secondo quanto ha notato Etienne Gilson:«Tutto ciò che di buono o di cattivo accade ad uno dei due amici, lo stesso accade all’altro amico».
Queste tre manifestazioni dell’unico senso della sofferenza concretizzano il profondo ed indissolubile legame tra sofferenza e dignità umana per cui quest’ultima viene proprio in risalto non contro o al di fuori della sofferenza, come oggi si ritiene un po’ ingenuamente da parte dei più a causa dei paradigmi soggettivistici ed edonistici di cui è intrisa la cultura odierna, ma soltanto tramite la sofferenza stessa.
Certo tutto questo suonerà strano, incomprensibile forse, per le orecchie di chi, immerso nell’ideologia contemporanea per cui tutto è privo di senso, reputa anche e soprattutto insensata la sofferenza, ma del resto questa stessa incapacità di comprensione è anch’essa il risultato della sofferenza, cioè quella causata dall’individualismo odierno che come spinge al godimento individuale, così relega alla individualità, nel senso dell’isolamento, della sofferenza.
Non è, in conclusione, la sofferenza priva di senso, ma semmai lo sono soltanto tutti quei filtri della civiltà occidentale moderna che privano la ragione della possibilità di investigare e scovare il senso delle cose e del mondo, cominciando proprio dalla prima e più naturale esperienza esistenziale, cioè l’umano patire.
Aldo Vitale
L’Occidentale, 25 aprile 2018