Nell’ultimo anno abbiamo parlato più volte di “media literacy” o “alfabetizzazione mediatica” come dello strumento più efficace per contrastare il caos informativo. Alla base di questa affermazione sta la convinzione che un lettore che conosce il funzionamento del mondo dell’informazione e del giornalismo sia molto più abile nel consumo di notizie e, di conseguenza, capace di distinguere più facilmente tra buon giornalismo e disinformazione. E abbiamo anche visto assieme alcuni progetti di alfabetizzazione mediatica diretti ai giovani.
L’ultimo report dell’American Press Institute suggerisce, però, che l’alfabetizzazione intesa come tale non è più sufficiente. Sia giornalisti che lettori dovrebbero orientarsi verso una conoscenza più specializzata (da “media literacy” a “media fluency”).
“Il termine ‘alfabetizzazione’ suggerisce che una persona sia capace (o incapace) di svolgere un compito, allo stesso modo in cui uno può sapere o non saper leggere. Questo non descrive in modo appropriato ciò che accade con le notizie. Le persone consumano costantemente notizie, persino i più giovani. Il problema è se siano in grado di riconoscere le caratteristiche del buon giornalismo – come accuratezza, cura delle fonti, prove forti, la differenza tra testimonianze per sentito dire e testimone oculare, etc.”.
Non si tratta semplicemente di un cambio di nomenclatura, spiegano l’executive director dell’American Press Institute Tom Rosentiel e l’accountability journalism program director Jane Elizabeth, autori del report. Al centro della proposta c’è un nuovo modo di fare giornalismo e la convinzione che, costruendo i propri articoli diversamente e andando oltre la struttura tradizionale, i giornalisti possono aiutare i lettori a specializzarsi nel consumo di notizie in maniera organica e progressiva. Fare in modo che, con ogni notizia che legge, il lettore migliori la propria preparazione mediatica.
La responsabilità dei giornalisti (e di chi dirige i giornali, naturalmente) è cruciale, perché su di loro ricade il compito di migliorare costantemente la capacità di informarsi di un’audience con un livello di alfabetizzazione mediatica eterogeneo. Ma questo comporta fare giornalismo in maniera differente.
Se i giornalisti vogliono davvero che i propri lettori siano in grado di differenziare tra buon giornalismo e cattiva informazione, fonti solide e voci di corridoio, allora devono scrivere i propri articoli in modo che chiunque sia in grado di riconoscerne le qualità. Gli autori del report dell’American Press Institute definiscono questo approccio come “organic news fluency”.
Oggi lo scopo del giornalismo non è solo informare sui fatti, ma educare i cittadini a riconoscere un giornalismo di qualità, accurato e trasparente. Non basta avere semplicemente un codice etico linkato in homepage, bisogna scrivere articoli che mostrino in maniera esplicita il lavoro giornalistico che c’è dietro. Grazie a internet questo si può fare in modi diversi: aggiungendo una lista delle fonti alla fine dell’articolo; condividendo con il lettore tutti i documenti e i materiali originali utilizzati dal giornalista durante la sua investigazione; permettere di cliccare sulla firma dell’articolo per conoscere la biografia dell’autore, i suoi lavori precedenti, i suoi profili sui social network o un’email di contatto; approfondendo aspetti particolari della notizia, dedicando per esempio un box laterale alle biografie dei protagonisti della notizia, etc.
Il giornalista dovrebbe essere in grado di anticipare le domande di un lettore specializzato e includerle nel proprio lavoro, in maniera esplicita. Gli autori del report immaginano un formato che prevede, oltre all’articolo, una sorta di box laterale con risposte a domande specifiche a seconda della tipologia del reportage (notizie standard, progetti non investigativi, giornalismo investigativo, fact-checking, spiegoni, breaking news, eventi live, approfondimenti, opinioni). Alcune domande universali potrebbero essere queste: Cosa c’è di nuovo in questo articolo? Quali sono le prove? Quali fonti sono state sentite? E perché proprio quelle? Cosa non sappiamo ancora? Cosa è ancora in discussione? (Ulteriori domande e tipologie possono essere consultate qui).
Qualcuno potrebbe obiettare che questo è da sempre parte del lavoro del giornalista, d’altronde neanche le domande elencate sopra sono una novità: vengono dal libro del 2010 “Blur: How to Tell What’s True in the Age of Information Overload”, di Bill Kovach e Tom Rosenstiel (co-autore del report di cui stiamo parlando). Sono domande che un reporter o un editor dovrebbero porsi ogni giorno in redazione, mentre scrivono o valutano una notizia da pubblicare.
Eppure, spiegano Rosenstiel ed Elizabeth, è raro che si risponda a queste domande in maniera esplicita, normalmente (se ci sono) le risposte sono relegate a un livello implicito dentro la narrazione e sta al lettore riconoscerle. Inoltre, e questo è il peggiore dei casi, i giornalisti spesso scrivono di cose di cui non sono sicuri, in assenza di fonti affidabili o di prove. Una delle massime di molte scuole di giornalismo è stata per anni: “In un articolo non porre mai una domanda a cui non puoi rispondere”. La deformazione di questa massima, e quindi la tendenza a insabbiare le domande piuttosto che cercare le risposte, porta a un giornalismo fatto di indiscrezioni e retroscena che si presta facilmente alla propaganda ma che ha poco a che fare con l’informazione di qualità.
L’urgenza di un cambio di paradigma si evince facilmente se pensiamo a un certo modo di fare giornalismo. Esempi in Italia non mancano, a partire dall’uso irresponsabile dei virgolettati, usati spesso per frasi mai pronunciate, per retroscena che il giornalista non ha presenziato, o per riassumere concetti in maniera sciatta e faziosa. Oppure basti pensare a quando alcune delle più importanti testate nazionali hanno riportato quel dato falso sulle denunce di stupro a Firenze (scrivendo che “ogni anno, solo a Firenze, vengono presentate da ragazze americane dalle 150 alle 200 denunce per stupro. Di queste il 90% risulta completamente inventate”): un’informazione priva di riscontro, pubblicata senza citare la fonte e senza che si attivasse alcun processo di verifica nelle redazioni. Altro caso che ci fa riflettere sulla mancata trasparenza delle fonti e l’assenza di pensiero critico è l’articolo de La Stampa su Beatrice Di Maio, definita account chiave su Twitter nella cyber propaganda del Movimento 5 Stelle, e poi rivelatasi essere la moglie di Renato Brunetta. Oppure la mezza bufala della bimba cristiana affidata a una famiglia musulmana a Londra, copiata dal Times senza porsi le domande essenziali che avrebbero portato un giornalista responsabile a scartarla in quanto sospetta e non verificabile. E che dire dell’ennesimo articolo del Corriere della Sera che nega il cambiamento climatico? E questi sono solamente alcuni dei tanti casi di cattiva informazione che abbiamo seguito su Valigia Blu nell’ultimo anno.
Tom Rosenstiel e Jane Elizabeth auspicano che i giornalisti rendano trasparente ed esplicito il processo di costruzione della notizia e le domande chiave che permettono di riconoscere un buon lavoro giornalistico. Questo permetterà ai lettori, consumatori di notizie, cittadini di sviluppare le capacità critiche per distinguere tra un giornalismo di qualità e un giornalismo mediocre.
Non è una rivoluzione indolore, un lettore specializzato nel consumo di notizie è un lettore critico ed esigente per definizione e non tutti i giornali sono all’altezza di un pubblico così.
di Marco Nurra Ricorda di citare la fonte: https://www.valigiablu.it/giornalismo-qualita-lettori/
Licenza cc-by-nc-nd valigiablu.it