Chesterton, Don Bosco, il Beato Piergiorgio Frassati hanno ispirato questa famiglia di San Benedetto del Tronto a fare cose grandi con gioia, con fatica, nel quotidiano.
Conosco Federica e Marco da dieci anni. Anche se non abitiamo vicini la loro famiglia ha accompagnato la mia, portando la gioia di Chesterton, la passione educativa di Don Bosco e l’entusiasmo per l’assoluto di Frassati. Quest’intervista è stata inevitabilmente a due voci, come lo è il matrimonio. Hanno cinque figli meravigliosi, sulla loro grande auto familiare c’è un adesivo su cui si legge «rompi le convezioni, rispetta i comandamenti» e con questa sana follia, che osa l’impossibile rimanendo fedele a Dio, hanno messo in piedi un’opera stupefacente: la scuola libera G. K. Chesterton, dove l’educazione è bellezza perché amore alla Verità.
Cara Federica, ho voluto incontrarti perché i lettori di Aleteia conoscessero la storia avventurosa del tuo matrimonio con Marco. Partiamo da questo e poi diremo tutto quello che ne è seguito. Come inizia la vostra storia?
FEDERICA: Mio marito si ricorda di un nostro primo incontro alla scuola media, nell’aula di musica. Da quel momento in poi ci sono state occasioni per conoscerci in parrocchia ed è nata una simpatia che è andata rafforzandosi. I nostri amici mi hanno sempre definita «turris eburnea», insomma lui ci ha messo un bel po’ per conquistarmi.
MARCO: Il buon Chesterton diceva che il matrimonio è un duello all’ultimo sangue che nessun uomo d’onore dovrebbe declinare. Io l’ho preso in parola e mi sono impegnato in un assedio testardo. Anche da fidanzati il duello è continuato, però è stato un match regolare. Per arrivare al matrimonio ho fatto una sudata, poi grazie al Sacramento è nato qualcosa di stupefacente.
FEDERICA: Entrambi abbiamo due personalità spiccate, durante il fidanzamento abbiamo scavato a fondo su questioni urgenti, solo dopo abbiamo capito che stavamo gettando le basi per ciò che sarebbe venuto. Fu decisivo per noi anche decidere dove vivere da sposati. Io avevo cominciato a lavorare e mi ero trasferita a Salò ad insegnare in una scuola professionale per meccanici e motoristi: vivevo un’esperienza educativa appassionante che non volevo lasciare. Marco era rimasto a San Benedetto del Tronto e abbiamo vissuto lontani 5 anni su 8 di fidanzamento. Ricordo che, ad un certo punto, recitammo una novena a Don Bosco e poco dopo ricevemmo delle proposte che ci resero chiaro che dovevamo stare a San Benedetto.
Cosa è nato di stupefacente, citando tuo marito, dopo il matrimonio?
FEDERICA: Mi ricordo di un’ultima passeggiata in spiaggia prima di sposarci in cui io misi le mani avanti: «Però io i figli non li voglio fare, perché ho paura di partorire!». All’inizio, la nostra vita familiare è stata molto precaria: Marco doveva fare l’esame da avvocato e io ero supplente; in due guadagnavamo 500 mila lire al mese, neppure fisse. È stato un rodaggio vero. Nonostante ciò, mi venne il desiderio di essere madre. Il primo figlio lo abbiamo perso al terzo mese di gravidanza ed è stato un colpo durissimo; ho passato mesi di dolore, piangendo quando vedevo i pancioni in giro. Sono rimasta incinta nuovamente e vengo ricoverata per delle minacce d’aborto: non avevo paura, era terrore. La gravidanza per fortuna procede, ho avuto nausee fortissime per tutto il periodo ma mi hanno portato a conoscere Piergiorgio che è nato ed è stato chiamato così perché avevamo pregato tantissimo il Beato Frassati. Da quel momento il desiderio di avere figli è stato come un fiume in piena, l’anno dopo è arrivata Francesca e due anni dopo Giulia. Dopo di loro ho avuto altri tre aborti spontanei poi sono arrivate Maria Chiara e Anna Maria. Sono felicissima dei figli che ho; quando mi dicono: «Perché tutti questi figli?», io rispondo che li ho ardentemente voluti tutti e ringrazio Dio tutti i giorni, anche più volte al giorno e nonostante la fatica.
Parliamo un po’ di questa fatica?
FEDERICA: I primi tre figli sono nati molto vicini e ci hanno richiesto un impegno grandissimo. Mi sono resa conto che, affinché il nostro matrimonio stesse in piedi, i figli non dovevano assorbire tutto di noi; era necessario uno spazio nostro, anche solo uno sguardo tra marito e moglie. È stato difficilissimo: figli che non dormono la notte, il lavoro durante il giorno, un ritmo di vita che ti può uccidere. Bisogna custodire il rapporto col proprio compagno; ricordo che noi chiedevamo agli amici di tenerci i figli, anche solo per fare il giro dell’isolato in cinque minuti e scambiarci due parole.
MARCO: Anche adesso, quando raccontiamo ai figli ormai grandi, di quei momenti in cui eravamo presi da malattie frequenti e notti insonni, non mi viene mai da pensare che quel tempo fosse tempo sottratto alla vita. Oggi le coppie fanno fatica perché spesso sono sole, non hanno amicizie solide che li accompagnino nella condivisone del senso della vita.
FEDERICA: Un’altra cosa da dire è che noi li abbiamo sempre coinvolti nelle attività che facevamo, non ci toglievamo la possibilità di fare cose solo perché avevamo dei bimbi piccoli. Eravamo impegnati in un dopo scuola che nel frattempo avevamo creato e nella Compagnia dei Tipi Loschi, nata anche questa nello stesso periodo: loro sono abituati a partecipare.
MARCO: Sono parte della nostra vita fin dall’inizio.
Gli amici e la famiglia vanno dunque di pari passo, cosa mi racconti della nascita della Compagnia dei Tipi Loschi e poi dell’idea di mettere in piedi una scuola libera?
FEDERICA: La Compagnia è nata 25 anni fa e noi non avevamo mai pensato di fondare nulla. Voglio sottolineare che il fondatore è mio marito: lui è quello che ha le idee geniali, io sono più attiva nella parte pratica. Per ridere siamo soliti dire che, come i carabinieri, noi dobbiamo girare in coppia.
È stato il vescovo in carica in quel periodo a convocare personalmente me e Marco e a dirci che avevamo un carisma coi giovani da coltivare. Ci destinò un posto che era in decadenza, ma bellissimo. Così, insieme ai ragazzi che hanno voluto seguirci, e che conoscevamo dalla nostra precedente esperienza scout, tutto è cominciato: abbiamo fondato la Compagnia dei Tipi Loschi sulle orme di Pier Giorgio Frassati perché questo ragazzo giovane aveva un gruppo di amici che chiamava così. Abbiamo come patrono Don Bosco e il coraggiosissimo Francesco Saverio, siamo ben corazzati.
Da questa condivisione coi giovani è scaturita l’idea di fare un doposcuola, per gli studenti in difficoltà, e visto che nel tempo l’iniziativa ha preso piede, abbiamo fondato l’associazione Capitani Coraggiosi, di cui fa parte anche una società sportiva che, copiando Don Camillo, abbiamo chiamato Gagliarda.
Eravate così poco impegnati che avete avuto anche la bella idea di mettere su una scuola, giusto?
FEDERICA: Tutto è cominciato quando Pier Giorgio doveva fare le medie e non sapevamo dove mandarlo. Avevamo chiesto alle suore che gestivano una scuola elementare di fare anche le medie; nonostante le nostre pesanti insistenze, loro non avevano forze sufficienti per il progetto. Mio marito allora se ne uscì: «Se non la fanno loro, la facciamo noi». Io ero incinta della quinta, pensavo fosse una sua pazzia momentanea e non gli ho dato ascolto. Anna Maria è nata il 29 aprile e verso il 15 maggio Marco ha ricominciato a insistere sull’idea della scuola. Quindi io mi sono messa all’opera, cercando insegnanti disponibili; abbiamo ricevuto solo NO.
Ma perché fare una scuola libera?
MARCO: La scuola serve per educare e non per socializzare. L’educazione è trasmettere la Verità – diceva Chesterton – quindi lo scopo non è trasmettere dei pareri sulla vita, ma la Verità. Si può non essere d’accordo, ma questa è la nostra idea. Diversamente, non cresci degli uomini, ma degli schiavi.
FEDERICA: All’ingresso della scuola, che – dobbiamo dirlo – alla fine è nata, abbiamo messo la frase di Benedetto XVI: «Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita». Per riprendere il racconto, dopo quella caterva di NO è arrivato il SÌ di un ragazzo neolaureato in Lettere che accettava di insegnare da noi. Quando Marco me lo ha riferito, ho capito che non si tornava indietro e ho esclamato: «Oddio!». Nel tempo io ho imparato a fidarmi delle intuizioni di mio marito, ha una chiarezza ideale che non tutti hanno. Quando eravamo fidanzati discutevo sempre con lui, poi ho visto di cosa è stato capace e ho imparato a seguirlo.
MARCO: Però continuiamo a duellare …
FEDERICA: Contro ogni ragionevolezza, siamo partiti con la scuola: paradossalmente l’annuncio dell’apertura lo abbiamo dato a fine agosto, quando tutti avevano già iscritto i figli e avevano già comprato i libri. A settembre l’unico iscritto era solo il nostro Pier Giorgio. Nessuno aveva mai sentito parlare di scuola parentale, noi ci abbiamo provato con l’idea che affinché una barca navighi deve avere un capitano e un equipaggio che vadano nella stessa direzione. Nella scuola statale è raro che accada.
MARCO: Manca la rotta, cioè un posto dove andare!
FEDERICA: Perciò la scuola è stata dedicata fin da subito a Chesterton, ispirata al suo aforisma «una cosa morta va con la corrente, solo una cosa viva può andare controcorrente». Non dobbiamo accettare tutto passivamente, è possibile fare qualcosa di diverso. Ci ha aiutato anche Franco Nembrini che aveva fatto un’opera simile.
MARCO: In una telefonata mi disse: «Tu sei pazzo!», gli ho risposto: «Sì, ma non l’hai fatto anche tu?» e lui: «Tu sei pazzo, allora lo farai».
FEDERICA: La scuola è partita con 4 alunni, abbiamo fatto tutto noi, dalla scelta dei libri, al recupero dei fondi, alla discussione sui programmi.
Ne è valsa la pena?
MARCO: Assolutamente sì, bisogna essere un po’ matti. Non lo diceva Steve Jobs: «Stay foolish»? Non ci piace quest’idea? Perché non per perseguirla per l’educazione dei nostri figli? Io non lascerò molti beni materiali ai nostri figli, ma lascerò loro un’educazione.
FEDERICA: Ora il nostro figlio maggiore, Pier Giorgio, pur frequentando Giurisprudenza, vuole fare l’insegnante alla scuola Chesterton. Questo è segno di gratitudine per noi. Abbiamo avuto a cuore la crescita culturale, umana e spirituale; per lo sviluppo armonico della persona devono esserci tutti e tre questi aspetti. Facendo un bilancio: la scuola esiste ormai da 10 anni, ci sono 70 iscritti e ora abbiamo le medie, il liceo delle scienze umane, l’IPIA elettronico, la scuola per estetiste e da quest’anno è partito l’istituto alberghiero.
Un motto di Don Bosco mi colpì quando avevo 20 anni: «Toglimi tutto ma dammi le anime», è rimasto a risuonare nel mio cuore da allora. Il Signore mi ha portato per mano e, anche quando non capivo, lui andava avanti a costruire la mia storia. Ora, da adulta, lo ringrazio perché, nonostante me, Lui ha fatto tutto.
Annalisa Teggi
Aleteia, 25 maggio 2018