Cristiani sì, ma “non praticanti”. L’inutile tormento per i bei tempi che non torneranno più… E’ la massa, enorme, dei cosiddetti “non praticanti”. Credenti a modo loro, che in fondo al cuore, nel più profondo, vivono una tensione al trascendente, ma poi non approfondiscono la faccenda, fermandosi a questo primo sentire.
Entrare in una chiesa di campagna o città durante la messa domenicale e trovarsi davanti un prete – di solito anziano – e due sole file di banchi occupati – di solito da anziane – può essere straniante. Enormi locali vuoti, da togliere il fiato per la loro magnificenza, divenuti spazi poco frequentati se non da orde di turisti attratti dalla statua del tal famoso scultore o dalla tela del rinomato pittore. Anni di indagini per capire lo stato del cristianesimo alle latitudini occidentali, studi complessi per capire se un tempo davvero folle entusiaste avessero calcato i pavimenti che portavano agli altari – Rodney Stark, forse il più grande sociologo delle religioni vivente, ha risposto che nel Medioevo delle cattedrali tanto amate da Robert Schuman in chiesa ci andava ancora meno gente, tanto per parlare di luoghi comuni da smentire. Ma cosa vuol dire essere cristiani, oggi, in Europa occidentale? Davvero l’unico parametro può essere l’affluenza alle messe domenicali? Il Pew Research Center, autorità suprema in materia di statistiche e analisi sullo stato delle religioni nel mondo, ha pubblicato uno studio massiccio che si propone di chiarire come vanno le cose. Intanto, ed è la prima osservazione, la maggior parte degli adulti intervistati – le interviste sono state ventiquattromila in quindici paesi – si è definita cristiana, anche se non frequenta le chiese. E’ la massa, enorme, dei cosiddetti “non praticanti”. Credenti a modo loro, che in fondo al cuore, nel più profondo, vivono una tensione al trascendente, ma poi non approfondiscono la faccenda, fermandosi a questo primo sentire. Nel dettaglio, il 91 per cento della popolazione dell’Europa occidentale è composta da battezzati, l’81 per cento da uomini e donne cresciuti come cristiani, il 71 da persone che si definiscono cristiane. Il 22 per cento assicura di partecipare a funzioni religiose (messe o culti) almeno una volta al mese. Ecco il sostrato che porta il Pew Research Center a concludere che “l’identità cristiana rimane un marcatore significativo in Europa occidentale, anche tra coloro che frequentano raramente la chiesa”. Un marcatore però sbiadito, se si dà retta ai passaggi del rapporto.
Uno studio del Pew Research Center sulla religiosità del Vecchio continente, ormai una delle regioni “più secolarizzate del mondo”.
C’è solo un paese in cui il numero dei praticanti è superiore (o uguale) a quello dei non praticanti, ed è l’Italia. Poi l’Irlanda (34 per cento di praticanti e 46 di non praticanti) e il Portogallo (35 e 48). Quindi tutti gli altri, con Finlandia e Svezia a chiudere la speciale “classifica”. Si tratta di dati comunque da prendere con le molle, avvertiva già tempo fa conversando con il Foglio il professor Massimo Introvigne, sociologo e direttore del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni): “La questione di quanti frequentano davvero la chiesa la domenica – diceva – è in assoluto la più controversa nell’ambito della ricerca sociologica mondiale. La tecnica Cati è entrata in crisi perché sono spariti gli elenchi del telefono e pochi hanno un telefono fisso e con i cellulari è tutto più difficile. Ma, soprattutto, è entrata in crisi perché alcuni studiosi americani hanno insinuato il tarlo del dubbio sul cosiddetto over reporting, cioè sul fatto che molti di quelli che dicono di andare a messa (o al culto protestante) in realtà non ci vanno. Ci si è così resi conto che le Cati misurano quanti dicono di andare a messa e non quanti vanno a messa: sono cose molto diverse. E’ lo stesso limite delle inchieste dell’Istat, che arrivano a rilevare fantastici 33 per cento ieri e 30 per cento oggi, dati che nessun sociologo italiano considera veri”.
Lo studio del Pew Research Center conclude che l’Europa occidentale, “culla del protestantesimo e storicamente sede del cattolicesimo, è diventata una delle regioni più secolari al mondo”. Non è una sorpresa, anche se messi in fila l’uno dopo l’altro, i dati dimostrano quanto e dove l’onda secolarizzante sia stata più impetuosa. E’ sui temi più controversi, quelli da battaglia si sarebbe detto fino a qualche tempo fa, che la fotografia del sondaggio meglio spiega la conclusione del rapporto.
Si prenda l’aborto: in Italia il 47 per cento dei praticanti si dice favorevole, cifra che sale al 79 per cento tra i non praticanti. In Germania, i favorevoli tra i praticanti sono il 54 per cento, tra i non praticanti l’84. Per quanto riguarda il matrimonio tra persone dello stesso sesso, in Italia i favorevoli tra i praticanti sono il 43 per cento – cifra più bassa rispetto all’aborto – in Germania il 53. Le interviste sono state condotte NEL 2017, e se il dossier fosse stato diffuso qualche settimana fa, probabilmente anche l’esito del referendum irlandese che ha cassato l’Ottavo emendamento costituzionale che proibisce l’interruzione di gravidanza sarebbe stato in qualche modo previsto. Nell’isola del nord Europa, infatti, i favorevoli all’aborto tra i praticanti sono il 42 per cento, dato che sale all’81 per cento tra i non praticanti. Non c’è partita. La gara è già persa, e da tempo.
Per Jürgen Habermas è fondamentale distinguere tra “laico” e “laicista”, altrimenti è impossibile capire la crisi contemporanea.
Che fare dunque? Di sicuro non cedere alla nostalgia per i bei tempi andati, ha detto qualche giorno fa il cardinale Angelo Scola, presentando all’Università “Francisco De Vitoria” di Madrid il suo libro Postcristianesimo? Il malessere e le speranze dell’occidente. “Non si può tornare indietro, la nostalgia su quel che era il cristianesimo prima della modernità è un sogno astratto. Io chiamo ‘postsecolarismo’ la fase che viviamo oggi, che si realizza al termine del processo di secolarizzazione e che ci ha condotto a un problematicismo che fa sentire maggiormente il suo peso nell’ambito delle società plurali, in particolare nella parte nord-occidentale” del mondo. In queste società plurali postsecolari coesistono “visioni del mondo diverse” che possono assumere a loro volta “diversi aspetti dialettici”, con il rischio sempre presente che si cada nel “fondamentalismo”. L’Europa occidentale – e non solo – è immersa in una crisi che non è solo economica: è una crisi dell’uomo, diceva il Papa e “uno dei motivi di fondo delle innegabili difficoltà che come chiesa stiamo attraversando è il rischio di non reggere il paragone con questa nuova fase della storia”, scriveva Scola. “Anzi, a volte sembriamo non renderci conto né dell’urgenza di tale paragone, né di che cosa esso implichi. Manchiamo il bersaglio. Da qui nasce a mio avviso, come nostro compito specifico di cristiani in Europa, la necessità di una nuova interpretazione culturale della fede e, più in generale, delle religioni”. Nel dettaglio, proseguiva l’allora arcivescovo di Milano, “non sarà forse inutile ribadire che essa non consiste nell’elaborazione di nuove teorie e parole d’ordine da parte di ‘cristiani inamidati, troppo educati, che parlano di cose teologiche mentre prendono il tè’, ma nel tentativo, da parte dei battezzati, di vivere in ogni ambito dell’umana esistenza le dimensioni della fede cristiana, fino alle sue implicazioni antropologiche, sociali e di rapporto con il creato”.
Ma oggi, “che cosa ha da proporre l’Europa al resto del mondo?”, si domandava Rémi Brague in un saggio pubblicato qualche tempo fa sulla rivista Oasis (n.18). “Non ha più granché di proprio se non una certa concezione dell’uomo”, rispondeva. “I diritti dell’uomo, la dignità umana e in generale qualche cosa come l’umanesimo”. Il problema, proseguiva Brague, è che “questo prodotto, che l’Europa propone al resto del mondo, è avariato. La fede che l’Europa ripone nel proprio umanesimo è una fede in cui essa stessa non crede più”. Da qui la necessità di dimostrare come l’idea umanista, che in un certo senso è tutto ciò che ci resta, sia andata imponendosi fino a raggiungere un’ultima tappa, rappresentata dall’umanesimo ateo, in cui si realizza il suo fallimento”. Fallimento perché senza un riferimento al trascendente, senza cioè una tensione con il Mistero, non è possibile rispondere “alla più radicale delle domande: perché è bene che l’uomo sia?”.
“Non si può tornare indietro”, ha detto il cardinale Angelo Scola: “Io chiamo ‘postsecolarismo’ la fase che viviamo oggi”.
Osservava Brague che “i sociologi non hanno difficoltà a dimostrare che in Europa l’appartenenza religiosa diminuisce o addirittura sprofonda. Al di là di queste constatazioni sociologiche, che sono enunciazioni di fatti e che perciò non interessano il filosofo, dobbiamo poi segnalare due trionfi spettacolari, uno nell’ambito teoretico, l’altro in quello pratico. La vittoria teoretica dell’ateismo è la scienza moderna, post-galileiana, che descrive la natura in termini matematici facendo a meno di quella che l’astronomo Laplace, rispondendo a Napoleone in un celebre aneddoto, chiamava l’ipotesi Dio”. Che si possa fare una descrizione dell’universo fisico del tutto convincente senza aver bisogno di chiamare in causa Dio è la prima vittoria dell’ateismo moderno.
La seconda vittoria – proseguiva Rémi Brague – è di ordine pratico. Il pensiero politico moderno ha infatti dimostrato, almeno in linea di principio, che si può organizzare una società senza avere bisogno di un principio sovra-umano di legittimità”. E qui Brague ricorda il paradosso di Pierre Bayle, filosofo francese del diciassettesimo secolo, secondo cui l’ateismo sarebbe stato meno pericoloso per lo stato della superstizione e che una società composta di atei sarebbe più facile da governare di una società di entusiasti religiosi. Le nostre società hanno fatto di quella che era inizialmente solo una scommessa una realtà concreta, ciascuna nel suo stile, dal wall of separation degli americani fino alla laïcité alla francese, passando attraverso molte altre sfumature”.
“Oggi l’Europa non ha più granché di proprio se non una certa concezione dell’uomo”, ha scritto Rémi Brague.
Sulla conclusione dello studio del Pew Research Center avrebbe probabilmente qualcosa da dire Jürgen Habermas. “Secolarismo” è parola usata in abbondanza, spesso abusata. “Perché nelle nostre società occidentali del Cinquecento era virtualmente impossibile non credere in Dio, mentre nel 2000 molti di noi trovano questa opzione non solo semplice, ma persino inevitabile?”, si domandava Charles Taylor in A secular Age (2007). Il dogma della laïcité insito ormai nelle nostre società confermerebbe tale assunto. Habermas ha sottolineato più volte la differenza fondamentale che c’è tra “laico” e “laicista”. “La persona laica o non credente – ha scritto il filosofo dieci anni fa in un articolo pubblicato in Italia sulla rivista Reset – si comporta con indifferenza agnostica nei confronti delle pretese religiose di validità. Invece, nei confronti di dottrine religiose che conservano rilevanza pubblica a prescindere dalla loro infondatezza scientifica, i laicisti assumono un atteggiamento polemico. Oggi il laicismo si appoggia spesso a un naturalismo hard, cioè fondato su assunti scientistici. Diversamente dal caso del relativismo culturale, qui non ho bisogno di discutere i presupposti filosofici retrostanti. In questo contesto mi interessa piuttosto chiedermi se una svalutazione laicistica della religione, nell’ipotesi venisse un giorno condivisa dalla grande maggioranza dei cittadini laici, sarebbe ancora conciliabile con quel bilanciamento postsecolare di “eguaglianza civica” e “differenza culturale” che ho disegnato poco fa. In altri termini, io mi chiedo se un’ipotetica mentalità laicistica della gran massa dei cittadini non finirebbe per essere – ai fini dell’autocomprensione normativa di una società post-secolare – altrettanto poco desiderabile quanto una deriva fondamentalistica dei cittadini credenti. Questa domanda tocca, del disagio presente, radici più profonde di quanto non faccia il cosiddetto dramma del multiculturalismo”.
Matteo Matzuzzi- Il Foglio, 4 Giugno 2018