Il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, cardinale Gianfranco Ravasi ha tenuto una lectio magistralis a Torino presso l’Accademia Albertina di Belle Arti su «Fede, bellezza, arte» in occasione della sua nomina ad Accademico. Il cardinale ha accolto il nostro invito a pubblicare su «Il Giornale dell’Arte» una versione scritta del suo intervento in cui rivendica e sancisce il diritto e dovere dell’arte di rappresentare la bellezza della fede.
UNA PREMESSA TEOLOGICA
Questo nostro itinerario essenziale e simbolico all’interno dell’intreccio tra fede, bellezza e arte è idealmente posto all’insegna di un personaggio teologico fondamentale in questo ambito, cioè il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-88). La sua opera si presenta così imponente e complessa da essere stata comparata a un mosaico policromo dalle figure molteplici e dai mille tasselli, o anche a un labirinto i cui meandri si inoltrano nei campi della teologia, della filosofia, della mistica, della letteratura e delle arti. È stato lui stesso a suggerire questo simbolo in una delle «guide» offerte al suo lettore intitolandola Il filo di Arianna attraverso la mia opera.
Per il nostro tema rimane ovviamente capitale il suo capolavoro Gloria (1961-69), che in ben sette tomi sviluppa un’«estetica teologica». Si noti bene: non una «teologia estetica» alla Herder o Chateaubriand, votata a elaborare un Cristianesimo estetico o estetizzante, capace di promuovere la potenza immaginativa e di solleticare il sentimento o di generare opere d’arte. Quella di von Balthasar è, invece, un’«estetica teologica» per cui è la Rivelazione stessa, anzi, il suo soggetto fondante, Dio, ad essere e a irradiare la bellezza, percepibile e coinvolgente. Come egli stesso dichiarava in apertura al suo monumentale progetto, «quest’opera costituisce il tentativo di sviluppare la teologia cristiana alla luce del terzo trascendentale, di completare cioè la considerazione del verum e del bonum mediante quella del pulchrum». Von Balthasar avrebbe poi sviluppato gli altri due trascendentali, cioè la verità e l’etica, nelle altre parti della sua trilogia, la Teologia (il verum) e la Teodrammatica (il bonum).
Fatta questa premessa, che pone la nostra riflessione all’ombra della grandiosa architettura teologica di von Balthasar, delineiamo il percorso che vorremmo adottare. Esso si articola in due tappe o movimenti che possono essere comparati anche, per stare a una simbologia artistica, a un dittico. Nella prima tavola proporremo una presentazione teologica della via pulchritudinis, una delle grandi analogie per dire Dio, analogia basata sulle stesse Sacre Scritture.
Nella seconda tappa mostreremo, attraverso una semplificazione essenziale, l’incidenza che ha avuto la stessa Bibbia nella manifestazione concreta di questa bellezza all’interno della storia dell’arte occidentale della quale è stata il codice fondamentale di riferimento.
I.La via pulchritudinis
Il 7 maggio 1964, nella cornice emozionante della Cappella Sistina, Paolo VI incontrava gli artisti riconoscendo una naturale parentela tra fede e arte perché, come egli diceva in quell’occasione, sfida ultima dell’artista è «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità». Nasceva, così, all’interno dei Musei Vaticani una Galleria d’arte moderna e contemporanea e, un anno dopo, l’8 dicembre 1965, i Padri del Concilio Vaticano II affidavano a tutti gli artisti questo messaggio: «Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione. E ciò grazie alle vostre mani».
Un messaggio rinvigorito anni dopo quando, nella Pasqua del 1999, Giovanni Paolo II indirizzava una sua Lettera agli artisti, nella consapevolezza che fosse necessario riannodare «un’alleanza feconda» tra Vangelo e arte. Infine, l’incontro di Benedetto XVI, il 21 novembre 2009 nella Cappella Sistina, con gli esponenti dell’orizzonte variegato dell’arte (che va oltre i pittori, gli scultori, gli architetti, i letterati, i musicisti, estendendosi anche al teatro, al cinema, al design, alla video art e così via) ha voluto rinnovare e rinsaldare questo vincolo profondo.
Quest’alleanza era durata a lungo, tant’è vero che «i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia», come affermava il famoso pittore russo-francese Marc Chagall, considerandola una sorta di «atlante iconografico» o di «immenso vocabolario» (e quest’ultima era un’espressione dello scrittore francese Paul Claudel). Basterebbe solo sfogliare i tre grossi tomi che Louis Réau pubblicò a Parigi tra il 1955 e il 1959 sull’Iconographie de l’art chrétien, per documentare questo incessante connubio tra arte e fede.
E, come giustamente suggeriva lo stesso von Balthasar, questa iconologia rispondeva a criteri ben precisi che non erano solo di indole estetica, ma si ancoravano al cuore del messaggio cristiano. Ne era consapevole la stessa teologia dei primi secoli cristiani quando, ad esempio, con uno dei primi cantori del valore spirituale delle immagini, san Giovanni Damasceno (VII-VIII secolo), invitava il non credente desideroso di conoscere la fede cristiana non a un dibattito teologico, bensì a entrare in una chiesa e a contemplare i dipinti e le statue là presenti: «Se un pagano viene e ti dice: “Mostrami la tua fede!”, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri» (Patrologia Graeca, 95, 325).
Si codificava così quella via pulchritudinis che conduceva alla suprema Bellezza divina partendo dalla bellezza artistica, «all’etterno dal tempo», per usare un’icastica formula di Dante Alighieri (Paradiso XXXI, 38). Questa via, che nell’arte ha la sua argomentazione più efficace, è stata una sorta di filo teso lungo i secoli. Certo, il rischio idolatrico, che è sempre in agguato, rende spesso sorvegliato ed esitante il nesso tra arte e fede, sulla base del celebre monito biblico del Decalogo di «non farsi immagine alcuna» di Dio (Esodo 20, 4), così da evitare la prostrazione davanti al vitello d’oro, ossia il passaggio dall’«eidolon», in greco «immagine», all’«idolo» puro e semplice (cfr. Isaia 44, 9-20; Geremia 10, 1-16; Sapienza 13-15). Suggestiva al riguardo, è la folgorante sintesi che Mosè fa dell’esperienza sinaitica di Israele: «Il Signore vi parlò dal fuoco. Voce di parole voi ascoltavate. Nessuna figura voi vedevate: solo una voce» (Deuteronomio 4, 12). Questa precauzione si esaspererà e degenererà nell’iconoclasmo, a partire dall’VIII secolo in Oriente o, più tardi, in Occidente con la Riforma protestante nelle sue espressioni più radicali. Queste ondate bianche aniconiche e spiritualistiche non potevano, però, cancellare, come vedremo, il fondamento teologico dell’arte, ossia il messaggio cristiano dell’Incarnazione. Ma procediamo per gradi.
Iniziamo con una domanda: il Dio biblico persona trascendente («Io sono colui che sono» Esodo 3, 14), non riducibile a una statua, non raffigurabile in un’immagine, deve rimanere inesorabilmente aniconico, irrappresentabile se non a livello concettuale? La risposta evidente è: no. Ed è la stessa Bibbia a indicarci almeno due percorsi iconologici che salvaguardano la trascendenza divina senza per questo costringerci all’iconoclasmo. Il Dio «splendido e magnifico», come si canta nel Salmo 76, 5, ha una vera e propria via «analogica» attraverso la quale è possibile non solo dirlo, ma anche raffigurarlo.
La formulazione più limpida, a livello teorico e tematico di questo percorso, è reperibile nel Libro della Sapienza che riflette anche il contributo del pensiero greco, essendo stata quest’opera elaborata probabilmente ad Alessandria d’Egitto, nella Diaspora giudaica. Si legge in 13, 5: «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia (analogôs) si contempla (theoréitai) il loro Autore», un’idea ripresa anche da san Paolo, sia pure con altra finalità, nella Lettera ai Romani (1, 20: «Le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute»).
«Dio creò l’uomo a sua immagine».
Eccoci, allora, di fronte alla prima via analogica «figurativa», quella delle creature in sé assunte come modello estetico. La «gloria» (kabôd in ebraico denota la stessa essenza intima divina nel suo svelarsi epifanico) è intuibile nel riflesso creaturale, come si canta nel Salmo 19: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento…, senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce» (vv. 2, 4). Non è, quindi, una narrazione verbale, bensì un racconto figurato cosmico, che si dispiega come una pergamena miniata tra cielo e terra, per usare una suggestiva metafora presente in un inno sinagogale della festa di Shavu‘ôt – Pentecoste.
Ma c’è una creatura che espleta in modo capitale l’analogia figurativa divina ed è la coppia umana. È ciò che è illustrato in modo efficace in un versetto della Genesi (1, 27). Tra parentesi, ricordiamo che la qualità estetica del creato, espressa attraverso il reiterato uso dell’aggettivo tôb che indica il «bello-buono», ha, sempre secondo la Genesi, nella creatura umana il suo apice: essa, infatti, non è solo tôb, ma tôb me’ôd, è «molto bella» (1, 31). Ma ritorniamo al nostro versetto che, già nella sua configurazione stilistica fondata sul tipico parallelismo esplicativo semantico, delinea la funzione iconologica teologica dell’essere umano nella sua realtà bipolare sessuale:
«Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò maschio e femmina li creò».
È evidente, anche graficamente, che l’«immagine» divina, in ebraico selem, nella versione greca eikôn, ha il suo sorprendente parallelo esplicativo in «maschio e femmina». Dio è, allora, da rappresentare come sessuato e accanto a lui si deve far assidere una dea paredra, come l’Astarte o l’Asherah idolatrica dei popoli circostanti a Israele? La risposta è ovviamente negativa, sulla base della polemica anti idolatrica che pervade la Bibbia e a cui sopra abbiamo già fatto riferimento. L’«immagine» divina, d’altronde, non è neppure da cercare, stando al testo sacro, nell’anima affidandoci alla tradizionale linea spiritualista, attestata ad esempio dalla Genesi alla lettera di sant’Agostino che non aveva dubbi al riguardo: «Che l’uomo sia fatto a immagine di Dio viene detto a causa della parte intima dell’uomo, ove ha sede la ragione e l’intelletto. L’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio soprattutto per quanto riguarda l’anima».
Per la Genesi, invece, l’«immagine» divina stampata nell’uomo e nella donna è da cercare nella loro capacità generativa: essa è la rappresentazione più «somigliante» (1, 26) del Dio Creatore: non per nulla la storia della salvezza successiva sarà delineata dalla «Tradizione Sacerdotale» della Genesi sulla base delle genealogie (1, 28; 2, 4; 9, 1.7; 10; 17, 2.6.16; 25, 11; 28, 3; 35, 9.11; 47, 27; 48, 3-4).
La figura umana, quindi, è un’efficace e reale icona di Dio, ma non ne esaurisce la realtà piena. Si abbozza, così, in modo semplificato ma genuino il concetto di simbolo che l’arte dovrà sempre custodire. È possibile dipingere o scolpire Dio sulla scia del modello che egli ci ha offerto, la creatura umana. Si esclude, allora, una radicale ineffabilità e invisibilità divina e, dunque, ogni iconoclasmo. Ma al tempo stesso si proclama l’irriducibilità della divinità a un modello rappresentativo totalizzante, lasciando sempre aperta la distanza dell’infinito e dell’eterno.
«Il Verbo carne divenne»
Il Nuovo Testamento, però, ci invita a una seconda e fondamentale via per rappresentare Dio: è quella che assume ed esalta fino alla pienezza la precedente via antropologica. Si tratta del modello cristologico che ha la sua base fondamentale nell’Incarnazione. Il testo da considerare come la sigla o la dichiarazione sorgiva è il celebre asserto del prologo di Giovanni (1, 14): ho Lógos sàrx eghéneto, «il Verbo carne divenne», ove spicca l’accostamento paradossale per la cultura greca tra Lógos e sárx. Come scriveva Jorge Luis Borges nella sua poesia, intitolata appunto Giovanni 1, 14: «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà, / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo». In Gesù Cristo, Figlio di Dio e uomo vero, si condensano e si elevano tutte le forme di rappresentazione del divino. Il punto di partenza è appunto la sua umanità reale e piena, che conosce l’arco intero dell’essere e dell’esistere umano, dalla nascita alla morte, inserendosi così pienamente nel tempo e nel limite della creatura per redimerla e trasfigurarla.
Come ricordava san Giovanni Paolo II nella citata Lettera agli artisti, il Secondo Concilio di Nicea del 787, celebrato dopo la bufera dell’iconoclasmo, appellò, considerandolo l’argomento decisivo per ricollocare le immagini nella fede e nella cultura cristiana, proprio al mistero dell’Incarnazione: «Se il figlio di Dio è entrato nel mondo delle realtà visibili, gettando un ponte mediante la sua umanità tra il visibile e l’invisibile, analogamente si può pensare che una rappresentazione del mistero possa essere usata, nella logica del segno, come evocazione sensibile del mistero. L’icona non è venerata per se stessa, ma rinvia al soggetto che rappresenta». Ritorna anche qui il tema dell’«analogia» già prospettato dal citato passo della Sapienza riguardo al creato come riflesso del Creatore (13, 5) con una nuova e ben più alta applicazione. Se, dunque, Gesù Cristo è vero uomo, proprio nella sua visibile umanità diventa «immagine-icona» del Dio vivente.
È ciò che è esplicitamente dichiarato dall’inno di apertura della Lettera ai Colossesi ove si presenta Cristo come «immagine (eikôn) del Dio invisibile» (1,15). È ciò che è formulato anche nell’incipit della Lettera agli Ebrei ove, ricorrendo a due metafore (l’irraggiamento e l’incisione o impressione di un sigillo) che la teologia giudaica alessandrina applicava alla Sapienza e al Logos divino (si veda, ad esempio, Sapienza 7, 25-26), si proclama che Cristo è «irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza» (1, 3). L’umanità di Gesù Cristo è, perciò, la via principale per affermare la possibilità di raffigurare Dio.
La stessa teologia procedeva in questa linea, come dichiarava un po’ paradossalmente Teodoro Studita (VIII-IX secolo): «Se l’arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato». In Gesù Cristo, per usare una famosa espressione di Dionigi l’Areopagita (V-VI secolo), si ha «il visibile dell’Invisibile». Conseguentemente è vero quello che Giovanni Paolo II, sempre nella Lettera gli artisti, deduceva: «In un certo senso, l’icona è un sacramento: analogamente a quanto avviene nei sacramenti, essa rende presente il mistero dell’Incarnazione. Proprio per questo la bellezza dell’icona può essere soprattutto gustata all’interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce».
Diventa, perciò, estremamente significativo sia l’appello del Salterio a «cantare a Dio con arte» (Salmo 47, 8), sia il fatto che si riconosca nella Bibbia una sorta di «ispirazione» divina anche per gli stessi artisti. È ciò che è esplicitamente affermato per Bezalel, l’architetto dell’arca dell’alleanza, il cui nome in ebraico è già emblematico perché significa «all’ombra di Dio», cioè sotto la sua protezione. Di lui nel libro dell’Esodo il Signore stesso afferma: «Io ho colmato Bezalel dello Spirito di Dio (ruah ’Elohîm) perché abbia sapienza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per ideare progetti da realizzare in oro, argento e bronzo, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno ed eseguire ogni sorta di opera» (31, 3-5). E Mosè ripete che «il Signore ha chiamato per nome Bezalel e l’ha riempito dello Spirito di Dio (ruah ’Elohîm), perché egli abbia sapienza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro» (Esodo 35, 30-31).
Similmente nel libro delle Cronache si ribadisce che i cantori del tempio ricevono una sorta di «ispirazione» divina: infatti, il termine usato per indicare l’«eseguire la musica» sacra, nb’, è lo stesso adottato per designare l’«ispirazione» dei profeti (nebi’îm). Giustamente, perciò, i pittori senesi del Trecento nei loro Statuti d’arte proclamavano: «Noi siamo coloro che rivelano agli uomini che non sanno leggere le cose miracolose operate per virtù della fede».
II. La Bibbia, «grande codice» culturale
Giungiamo, così, alla seconda tavola del nostro dittico ideale. Vogliamo ora mostrare, solo attraverso piccoli esempi, la potenza generativa che ha esercitato la Bibbia nella cultura occidentale. Riferiamoci ancora una volta a Giovanni Paolo II e alla sua Lettera agli artisti: «A partire dai racconti della creazione, del peccato, del diluvio, del ciclo dei Patriarchi, degli eventi dell’esodo, fino a tanti altri episodi e personaggi della storia della salvezza, il testo biblico ha acceso l’immaginazione di pittori, poeti, musicisti, autori di teatro e di cinema. Una figura come quella di Giobbe, per fare solo un esempio, con la sua bruciante e sempre attuale problematica del dolore, continua a suscitare insieme l’interesse filosofico e quello letterario e artistico. E che dire poi del Nuovo Testamento? Dalla Natività al Golgota, dalla Trasfigurazione alla Resurrezione, dai miracoli agli insegnamenti di Cristo, fino agli eventi narrati negli Atti degli Apostoli o prospettati dall’Apocalisse in chiave escatologica, innumerevoli volte la parola biblica si è fatta immagine, musica, poesia, evocando con il linguaggio dell’arte il mistero del Verbo fatto carne».
Effettivamente la Bibbia nella cultura occidentale ha avuto una presenza così feconda da renderla una sorta di «lessico» o repertorio letterario e iconografico da cui desumere simboli, segni, immagini, narrazioni, figure. Il critico canadese Northrop Frye nel suo famoso saggio intitolato «Il grande codice» (1981), formula coniata da un artista, William Blake, affermava senza esitazione che «le Sacre Scritture sono l’universo entro cui la letteratura e l’arte occidentale hanno operato fino al XVIII secolo e stanno ancora in larga misura operando». Il rapporto tra Bibbia e letteratura registra un dato di fatto facilmente accessibile a chi perlustri la storia culturale dell’Occidente: per secoli, infatti, la Bibbia è stata l’immenso repertorio iconografico, ideologico e letterario a cui si è attinto. E se il critico tedesco Erich Auerbach nella sua famosa «Mimesis» (1946) aveva riconosciuto nella Bibbia e nell’Odissea i due modelli cruciali per la nostra cultura, un filosofo così fieramente anticristiano, Nietzsche, nei materiali preparatori all’opera «Aurora» (1881) ugualmente confessava che «per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e di Petrarca c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera».
Il modello attualizzante
Cercare di delineare questa presenza con la molteplicità delle sue forme, ora ideali ora degenerate, è un’impresa ciclopica, per non dire disperata, tanto sterminata risulterebbe ogni catalogazione. Tuttavia, sulla scia di stimoli provenienti dalla filosofia (ad esempio, Gadamer) e dalla teologia, si è riconosciuto, per la comprensione della Bibbia, il rilievo rappresentato non solo dall’Autore ma anche dal Lettore, cioè dalla Tradizione teologica, spirituale e artistica che dalla Scrittura è stata generata. Si è, così, configurata una ricerca detta di Wirkungsgeschichte o «storia dell’effetto» (o anche Rezeptionsgeschichte, ossia di «storia della recezione» di un testo) che verifica lo straordinario influsso e l’irradiazione esercitata dalla Bibbia sull’immaginario e sulla vicenda culturale alta e popolare.
Muovendoci su una traiettoria puramente esemplificativa, ci accontenteremo di indicare solo un esempio che cerchi di rappresentare in modo emblematico questo immenso influsso. Pensiamo alla stupenda ripresa della lotta di Giacobbe con l’angelo (Genesi 32) nella «Visione dopo il sermone» di Gauguin (1888), con l’apparire in primo piano delle cuffie delle donne bretoni. L’antico testo sacro entrava nella piazza ove pulsa la vita quotidiana e si affacciano i volti contemporanei dotati, come affermava lo stesso pittore, di una «semplicità rustica e fin superstiziosa». Questo tipo di rilettura, che domina nell’arte sacra, è attento a ricondurre eventi evangelici all’«oggi» della Chiesa. Pensiamo anche alle raffigurazioni popolari, al folclore, ai riti tradizionali che cercano di far rivivere la passione di Cristo o altri momenti della sua esistenza all’interno della quotidianità, delle architetture e delle presenze che popolano l’orizzonte quotidiano.
Il modello degenerativo
C’è, però, un altro modello da individuare: esso elabora i dati biblici in modo sconcertante e per questo lo potremmo definire come degenerativo. Nella stessa storia della teologia e dell’esegesi si sono verificate spesso deviazioni e deformazioni interpretative rispetto al testo sacro che si è, così, trasformato in un pretesto per parlare d’altro («allegoria») o persino per ribaltarne il senso originario. Lo stesso accade anche nella storia della cultura. Prendiamo come emblema il libro di Giobbe. La tradizione, infatti, ignorando l’altissimo poema che costituisce la sostanza dell’opera, si è attestata quasi esclusivamente sul prologo e sull’epilogo (cc. 1-2 e 42). Qui Giobbe appare solo come l’uomo paziente che supera la prova ed è alla fine ricompensato da Dio (si pensi alla tela di Cranach con questa figura biblica umiliata anche dalla moglie). In realtà il corpo centrale dell’opera presenta, invece, il dramma della fede posta di fronte al mistero di Dio e del male. L’approdo di una ricerca lacerata e acre è in quella professione di fede che sigilla realmente l’intero scritto: «Io ti conoscevo per sentito dire; ora i miei occhi ti vedono» (42, 5).
L’arte cristiana, invece, sulla scia di un’interpretazione riduttiva già presente nel Nuovo Testamento (Giacomo 5, 11) e nei Padri della Chiesa, si accontenterà di un Giobbe collocato sul letamaio, pronto a sopportare le più atroci sofferenze, l’ironia della moglie e la contestazione degli amici, in attesa della liberazione finale. Ma la «degenerazione» del significato autentico del libro biblico può essere ulteriormente illustrata all’interno dell’enorme ripresa letteraria che la storia di Giobbe ha subìto (da Goethe a Dostoevskij, da Roth a Singer, da Bloch a Camus e così via).
Esemplare in questo senso è la Risposta a Giobbe di Carl Gustav Jung (1952) in cui il celebre sofferente biblico si erge come il simbolo della moralità e della responsabilità di fronte a un Dio del tutto libero da ogni etica, nella sua onnipotenza e onniscienza. Cristo sarà colui che, provenendo da Dio ed entrando nell’umanità, riuscirà a imparare la lezione morale di Giobbe e ad ergersi contro la durezza «immorale» e l’insondabilità del Padre celeste. Come è evidente, il testo biblico è ormai solo uno spunto sul quale si intessono nuove trame e nuovi significati e questo accade per molte figure bibliche: sempre per stare nell’ambito psicoanalitico, si ricordi l’elaborazione della figura di Mosé e delle origini della religione ebraica compiuta da Sigmund Freud nei tre saggi su L’Uomo Mosè e la religione monoteistica (1913).
Il modello trasfigurativo
Tuttavia dobbiamo riconoscere che, se è già segno di fecondità e di forza dell’originale biblico anche la lettura deviata, una grandiosa testimonianza di potenza spirituale e culturale la Bibbia la offre quando è fatta trasparire in tutta la sua ricchezza simbolica e teologica. È per questo che vorremmo parlare di un terzo modello di tipo trasfigurativo. L’arte riesce spesso a rendere visibili risonanze segrete del testo sacro, a ritrascriverlo in tutta la sua purezza, a far germogliare potenzialità che l’esegesi scientifica solo a fatica conquista e talora del tutto ignora. È ciò che Paul Klee affermava in senso generale quando nella sua Teoria della forma e della figurazione scriveva che «l’arte non ripete le cose visibili ma rende visibile ciò che spesso non lo è». Gaston Bachelard diceva di Chagall che nei suoi quadri «egli legge la Bibbia e subito i passi biblici diventano luce».
In questo senso ci sembra particolarmente indicativa la grande musica che nel periodo storico che va dal Seicento agli inizi dell’Ottocento ha spesso superato le arti figurative nel divenire interprete della Bibbia (Carissimi, Monteverdi, Schütz, Pachelbel, Bach, Vivaldi, Buxtehude, Telemann, Couperin, Charpentier, Handel, Haydn, Mozart, Bruckner ecc.). Si immagini solo che cosa possa significare un oratorio come «Jefte» di Carissimi o il «Vespro della Beata Vergine» di Monteverdi o una «Passione secondo san Matteo» di Bach o, per venire ai nostri giorni, la «Passione secondo Luca» di Penderecki o i «Chichester Psalms» di Bernstein.
Per avere un esempio specifico ed essenziale, basterebbe seguire la suprema rilettura che Mozart fa di un salmo letterariamente modesto, il brevissimo 117 (116), caro però a Israele perché proclamava le due virtù fondamentali dell’alleanza che lega Dio al suo popolo, cioè la veritas et misericordia, come dice la versione latina della Volgata usata dal musicista, ovvero l’«amore e fedeltà», in una traduzione più vicina all’originale ebraico (hesed we’emet). Ebbene, il Laudate Dominum in fa minore dei «Vespri solenni di un Confessore» (K 339) di Mozart riesce a ricreare la carica teologica e spirituale, ebraica e cristiana del salmo come non saprebbe mai fare nessuna esegesi testuale diretta.
Il risultato «trasfigurativo» è proprio, comunque, di tutte le grandi opere d’arte e di letteratura. Impossibile sarebbe dimostrarlo compiutamente perché il repertorio da consultare è vastissimo. Ci accontentiamo di un simbolo, quello del dito efficace di Dio, spesso celebrato dalla Bibbia. Ebbene, tutta la storia, la missione, la figura e la grandezza del Battista sono racchiusi in quell’indice poderoso puntato verso il Crocifisso che Matthias Grünewald ha dipinto nell’Altare di Isenheim del museo di Colmar. Tutto il mistero dell’atto creativo descritto nel libro della Genesi è nell’indice «imperativo» del Creatore michelangiolesco che sveglia all’essere l’indice assopito di Adamo. E tutta la redenzione «ri-creatrice» che si crea nella vita del pubblicano Levi è nella citazione che Caravaggio fa di Michelangelo in quell’indice che Cristo punta sul futuro apostolo Matteo, nella celebre tela di San Luigi dei Francesi a Roma.
L’arte e le varie espressioni culturali possono, quindi, rivelarsi ripetutamente animate dall’immaginario e dall’ideologia biblica. Reciprocamente la tradizione culturale diventa chiave di interpretazione, ora libera, ora corretta, ora deviata, della stessa Scrittura tant’è vero che un importante teologo come Marie-Dominique Chenu, nel suo volume su La teologia nel XII secolo (1957), confessava: «Se dovessi rifare quest’opera darei un’attenzione molto maggiore alla storia delle arti, sia letterarie sia plastiche, perché esse non sono soltanto delle illustrazioni estetiche ma dei veri luoghi teologici». Tutto questo è giustificato anche dal fatto che la Bibbia, pur essendo un testo teologico nella sua finalità ultima, è anche un’opera letteraria, dotata di una sua straordinaria forza espressiva e adotta la via simbolica come strada per dire Dio e il senso ultimo dell’essere e dell’esistere, del cosmo e della storia umana. Scindere messaggio e sua espressione, linguaggio e lingua, verità e bellezza è, quindi, una ferita alla stessa realtà dell’Incarnazione ove Lógos e sarx, Parola e parole sono intrecciate tra loro in modo inscindibile.
Gianfranco Ravasi,
da Il Giornale dell’Arte numero 386, maggio 2018