Il professore di Filosofia Paolo Becchi spiega alla Nuova BQ: «Nel ’68 una commissione stese un documento in cui si ammetteva che la vecchia definizione di morte era un ostacolo ai trapianti. Era un discorso utilitarista più che scientifico. Ma nel 1992 Troug e Fackler dimostrarono che i mezzi clinici usati per accertare la cessazione di tutte le funzioni dell’encefalo in realtà non riescono a farlo completamente. E che dire di Tk che visse 14 anni dopo la diagnosi di “morte cerebrale”?»
La morte del piccolo Alfie ha rigettato luce su un vecchio diabattito che si vuole considerare risolto anche se i dissensi sia nel mondo filosofico, sia etico, sia scientifico crescono. Il fatto che L’Alder Hey Hospital di Liverpool, dove era ricoverato il bimbo inglese, fosse stato coinvolto in un enorme scandalo di organi insieme a numerosi ospedali inglesi, ha riaperto il problema degli espianti, che, volenti o nolenti, hanno influito su una concezione della dignità della vita legata alla quantità di funzionamento del cervello la cui inattività (cervello, cervelletto e tronco encefalico) viene fatta coincidere con la morte della persona. Ma i tanti casi riportati dalla Nuova BQ di persone giudicate morte, che si sono poi risvegliate dal coma, fa pensare non solo alla strumentalizzazione della diagnosi. Infatti ci si domanda se, anche in assenza rilevata della totalità delle funzioni encefaliche, si possa parlare davvero di morte della persona. Secondo i suoi difensori, la morte cerebrale renderebbe il corpo un ammasso di organi in parte funzionanti, ma privo di vita umana e per chi crede di un’anima. Ma ci sono scienziati, filosofi, medici e teologi che contestano questa visione. Fra loro il professor Paolo Becchi, docente di Filosofia pratica e Bioetica giuridica all’università di Genova.
Professore, lei ha scritto diversi saggi e libri in merito, perché nel 1968 una commissione si riunì ad Harvard cambiando di punto in bianco la definizione di morte?
Christiaan Barnard, il 3 dicembre 1967, aveva espiantato per la prima volta il cuore da una giovane donna, per trapiantarlo in un uomo di mezza età e secondo le leggi di allora era un omicida. Non a caso il trapianto avvenne a Città del Capo, mentre un collega di Barnard, David Hume, che negli Stati Uniti aveva fatto lo stesso, era stato accusato di omicidio. La commissione qualche mese dopo si riunì ad Harvard con l’obiettivo di legalizzare il trapianto di organi che non possono essere prelevati se non provocando la morte di qualcun altro.
Barnard era considerato un senza scrupoli, “un tracotante che riteneva di poter superare qualsiasi limite, violando leggi, usanze e tradizioni condivise” come lo descrissero i suoi colleghi. Eppure…
Eppure per garantire ai medici di operare in questo modo ci fu bisogno di dire che i pazienti in coma irreversibile e con funzioni encefaliche completamente compromesse erano morti. Così qualche mese dopo, nell’agosto del ’68, la commissione stese il documento che presenta due aspetti: uno dice cosa possiamo fare in una situazione di lesione completa dell’encefalo, ossia come tenere in vita la persona in modo da prelevare organi vitali, il secondo, in una sola riga, ammette che la vecchia definizione di morte (arresto cardiaco respiratorio e dell’encefalo insieme) era un ostacolo ai trapianti. Mi pare un discorso utilitarista più che scientifico. Ma fu sprecata una sola riga per mettere in sordina il vero obiettivo di questo cambiamento di paradigma. Per legittimare dal punto di vista medico-giuridico il trapianto da persone viventi.
Lei condanna il trapianto di organi che la Chiesa nel Catechismo definisce un atto nobile?
È nobile per quanto riguarda gli organi che si possono trapiantare fra vivi (penso al rene) o da morti (penso alla cornea che resiste per delle ore dopo l’arresto cardiaco). Con le tecniche di respirazione artificiale scoperte in questi anni ci si accorse che situazioni prima irreversibili non lo erano più, che la ventilazione meccanica poteva salvare molte vite, ma alcune invece rimanevano in questa situazione del tutto nuova e inattesa, per cui il cervello era del tutto danneggiato, ma l’insieme degli organi e il loro funzionamento integrato continuava.
Cosa ne pensa delle persone che si sono “risvegliate” dagli stati di morte cerebrale diagnosticati accuratamente?
Sono più propenso a credere che, se la “morte cerebrale” è diagnosticata in maniera esatta, con la fine di tutte le funzioni cerebrali, compreso il tronco encefalico, e con tutti gli altri strumenti di cui disponiamo, sia difficile pensare ad un risveglio. Anche se è vero che normalmente, solo poche ore dopo l’accertamento, vengono spenti tutti i supporti vitali che conducono alla morte reale con l’arresto cardiaco.
Inoltre i casi di cronaca riportati di persone definite “cerebralmente morte” e che si sono risvegliate li conosciamo per via dei parenti che si sono opposti e hanno protratto il tempo stabilito per la rimozione dei sostegni vitali.
Anche questo è vero, ma anche non si fossero mai risvegliati di sicuro non erano morti. Il caso riportato dal professor Shewmon fa pensare.
Ci spieghi.
TK, all’età di 4 anni contrasse la meningite. Esami multipli sulle onde cerebrali diedero risultati negativi e nei 14 anni successivi non furono rilevati né riflessi del tronco encefalico, né respirazione spontanea (la risonanza magnetica non mostrava flusso sanguigno intracranico, l’intero cervello, incluso il tronco, era stato sostituito da un’ombra di tessuti e da fluidi proteici disorganizzati). La diagnosi di morte cerebrale era accurata, perciò i medici volevano interrompere il supporto vitale, ma la madre del bambino si oppose. Tk rimase collegato ad un ventilatore, mangiava tramite il sondino, urinava spontaneamente e aveva superato diverse infezioni fino alla morte avvenuta a 20 anni. Il ragazzo esaminato: non aveva nessuna funzione del tronco cerebrale, ma quando Shewmon pizzicò varie parti del suo corpo, aumentarono la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. Non a livello del viso, però, i cui impulsi sensoriali dipendono dal tronco cerebrale. Anche l’autopsia confermò la distruzione dell’intero encefalo e del tronco encefalico».
Ci sono medici che mettono in dubbio la definizione di morte cerebrale?
Sono sempre di più. Uno, pur non essendo contrario a trapianti e all’autodeterminazione è l’allora primario di neurologia Carlo Alberto Defanti, che ha ammesso «l’impossibilità di esplorare le funzioni di ampi settori del cervello nell’individuo in stato di coma», riconoscendo che la “morte cerebrale” «non dimostra compiutamente l’assenza irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo». Me lo scrisse dopo aver analizzato alcuni miei scritti a cui mi aspettavo che ribattesse criticandomi.
Cosa significa che non siamo in grado di «esplorare» e quindi di «accertare la morte di ampi settori del cervello»?
Che non siamo in grado di accertare la totale e irreversibile fine di tute le funzioni cerebrali. Inoltre alcune alcune aree di un cervello dichiarato morto funzionano, ad esempio producono ormoni. Ciò è accertato scientificamente, motivo per cui, nel 1992 i medici e ricercatori Robert Troug e James Fackler, avanzarono i primi dubbi sulla definizione di Harvard, dimostrando che i mezzi clinici impiegati per accertare la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo in realtà non riescono a farlo del tutto.
Come fa, chi pensa che la morte cerebrale coincida con la morte, a giustificare la differenza fra un cadavere e una persona il cui cuore è battente?
La differenza dal punto di vista filosofico è facile: se siamo dualisti, pensando che da una parte c’è l’anima e dall’altra corpo, che da una parte c’è la mente e dall’altra il corpo, se quindi abbiamo una concezione cartesiana della morte allora possiamo giustificare il fatto che la una persona è morta anche se il suo cuore batte, il sangue scorre nelle vene e diverse funzioni del corpo si integrano ancora.
Beh, parte della Chiesa ha parzialmente accettato la morte cerebrale non su questa base, ma proprio su una base unitaria: siccome la presenza dell’anima è garantita dalla presenza di un corpo vivente, se il cervello smette di funzionare, non parliamo più di un corpo vivente e unitariamente attivo, ma di un insieme di organi che funzionano da soli.
È una contraddizione abissale, infatti lo Stato Vaticano non accetta la definizione di morte cerebrale. La legislazione ammette solo quella reale (arresto cardiaco). Inoltre il dibattito scientifico sulle funzioni integrate è molto aperto e la dottrina non impone la visione di morte cerebrale.
Cosa implica in generale nello sguardo del medico al paziente questo nuovo parametro di morte. Non si rischia così di misurare la dignità della vita in base a quanto funziona il cervello?
Il problema è evidente: quando il medico vede il paziente in quello stato non lo vede più come vivo, pensa agli organi. Non è più un essere umano, ma un cadavere. Quindi è chiaro che muta tutto lo sguardo sulla persona in base all’attività del cervello.
La comunità scientifica e medica però è quasi unanime.
Non unanime, anche se si tratta di un dogma, tanto che non esiste nemmeno la possibilità dell’obiezione di coscienza.
Ratzinger ribadì che il trapianto era possibile solo ex cadavere diversamente da un discorso fatto da Giovanni Paolo II nel 2000 agli operatori del campo dei trapianti. Perché secondo lei?
So che le posizioni di Ratzinger erano più affini alle mie, così come quelle del cardinal Meisner, con cui mi sono scritto (nel mio libro ho pubblicato la corrispondenza).
In America il mercato dei trapianti è miliardario, cosa dice oggi la legge italiana?
Gli organi mancano in Italia perché vige il divieto della commercializzazione di organi, ma la richiesta è sempre maggiore, cresce sempre di più.
Cosa accade a chi mette in discussione la definizione di Harvard?
Ripeto che questo è un dogma su cui non si vuole nemmeno discutere. Quando giravo a fare conferenze sul tema, ero inseguito dalle proteste. È più leale il Giappone che rifiuta la definizione di morte cerebrale: lì la legge ammette che gli organi si espiantano su persone in procinto di morire non morte. Ma il mercato teme di ritornare indietro, perché sa che una legislazione come quella giapponese ridurrebbe il numero di donatori. Dovremmo discutere poi se questo è lecito o meno, ma la verità prima di tutto: non si può fondare un sistema su un’incertezza solo per far sentite le coscienza a posto.
Benedetta Frigerio
La Nuova Bussola Quotidiana, 10 giugno 2018