La Corte di Appello di Milano concede la pensione di reversibilità al compagno gay di un defunto. Decisione contra legem perché vietata dalle norme vigenti. I magistrati da operatori del diritto si sono trasformati in artisti del diritto secondo il principio della giurisprudenza creativa.
Rolando Borsato ed Ettore Zola hanno fatto coppia fissa per 40 anni. Poi nel 2015 Borsato muore. Quest’ultimo aveva versato i contributi previdenziali a Inarcassa, la cassa nazionale di previdenza ed assistenza per gli ingegneri ed architetti liberi professionisti. Alla sua morte il compagno omosessuale Zola aveva chiesto a Inarcassa la pensione di reversibilità, richiesta rigettata. Stessa sorte toccata al ricorso che Zola presentò al Tribunale di Milano perché – come scrissero i giudici – “la pensione di reversibilità spetta al coniuge superstite in presenza di regolare matrimonio”. Ma ecco che un paio di settimane fa la Corte di Appello di Milano, a cui aveva fatto ricorso l’indomito Zola assistito dalla solita Rete Lenford (un pool di avvocati che promuovono vertenze giudiziarie a favore delle rivendicazioni del mondo gay), gli ha dato ragione.
La notizia ha un suo rilievo perché è la prima volta che si riconosce la pensione di reversibilità ad un membro di una coppia di fatto. Infatti i due non fecero in tempo ad usufruire dell’istituto delle Unioni civili che permette al compagno superstite di usufruire di tale pensione. Questo diritto, è da sottolineare, non fu mai concesso nemmeno a componenti di coppie di fatto eterosessuali. Ora questi ultimi si affretteranno a chiedere la pensione di reversibilità forti di questa sentenza.
Dovremo attendere le motivazioni della sentenza per comprendere perché i giudici hanno così sentenziato però qualche considerazione a riguardo si può fin da ora avanzare. In primis questa decisione appare contra legem perché vietata dalle norme vigenti. Ad oggi la pensione di reversibilità viene concessa ai coniugi sposati e (ingiustamente) a chi si unisce civilmente. Vuoi questo diritto? Assumiti formalmente i relativi doveri propri dei coniugi e degli uniti civili.
Ma perché i giudici hanno così deciso? Un appiglio quasi sicuramente è stato dato loro dalla sentenza n. 138 del 2010 della Corte costituzionale, nella quale si invitava il Parlamento a riconoscere le convivenze gay perché queste, secondo la fantasia dei giudici, erano già tutelate dalla Costituzione all’art. 2 (formazioni sociali che in realtà sono le associazioni, i partiti politici, i sindacati, etc.). Altro appiglio, ancora più rilevante, sarà stata forse la sentenza della Corte di Cassazione n. 4184 del 2012 che affermò che le coppie omosessuali possono esercitare il “diritto alla ‘vita familiare'” e a “vivere liberamente una condizione di coppia”. Inoltre al verificarsi di “specifiche situazioni”, hanno diritto ad “trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”.
Dunque da una parte accade che la legge esiga la formalizzazione di un rapporto per avere certezza che quel rapporto sussista e che coloro che danno vita a tale relazione riconosciuta dalla legge si assumano alcuni doveri i quali legittimano l’assegnazione di relativi diritti; e su altro fronte accade che la magistratura, applicando indebitamente un metodo analogico, affermi il contrario: sebbene il rapporto non sia stato formalizzato noi giudici consideriamo questa relazione de facto al pari di una relazione de iure. Dunque il fatto sociale diventa fatto giuridico.
La conseguenza di questa procedura giurisprudenziale è almeno triplice. Su un primo fronte gli istituti giuridici diventano superflui ed anzi dannosi. Perché sposarsi o unirsi civilmente se posso avere gli stessi diritti dei coniugi e uniti civili senza poi nemmeno la necessità di sobbarcarsi i relativi oneri? E’ più efficace e quindi meno dannoso per me convivere di fatto. Oppure può accadere che gli istituti giuridici siano elasticissimi tanto da ricomprendere nel loro seno casi che le leggi che li hanno istituiti avevano espressamente escluso. Ciò accade almeno per due motivi.
Il primo: i giudici applicano correttamente la ratio sottesa a tali leggi ingiuste evidenziando le contraddizioni interne. Ad esempio: se la Cirinnà all’art. 1 assegna valore alle unioni civili perché formazioni sociali ex art. 2 della Costituzione (principio erroneo), non si vede il motivo per cui una coppia di fatto non possa essere considerata anche lei una formazione sociale e quindi godere degli stessi diritti delle unioni civili. Questa procedimento volto ad applicare la ratio di alcune leggi ingiuste a fattispecie volutamente non contemplate dalla medesima legge porta lontano: ecco perché a breve arriveremo ad esempio alla legittimazione dell’omogenitorialità senza nemmeno passare attraverso l’istituto dell’adozione (è ciò che stanno già facendo alcuni sindaci in giro per l’Italia) e all’abrogazione del divieto dell’utero in affitto presente nella legge 40 del 2004.
Il secondo motivo è di segno opposto: i giudici ravvisano ad esempio nell’istituto matrimoniale la presenza di alcuni principi costituzionali realmente esistenti che poi applicano però in modo indebito ai conviventi. Ad esempio i coniugi sono una famiglia e così anche i conviventi. In breve tutto questo prende il nome di giurisprudenza creativa. E così i magistrati da operatori del diritto si sono trasformati in artisti del diritto.
Tommaso Scandroglio
La Nuova Bussola Quotidiana, 18 giugno 2018