Negli istituti di pena del nostro Paese è emergenza sanitaria. A delinearne lo scenario è l’ispettore generale dei cappellani auspicando maggiore attenzione da parte della politica e la ripresa dell’iter della riforma dell’ordinamento penitenziario.
La salute è un diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione, eppure ammalarsi in carcere è una disgrazia. Visite, esami diagnostici e specialistici, interventi chirurgici diventano estremamente difficoltosi e alla perdita della libertà personale si aggiunge in molti casi anche quella della salute e talvolta della vita. Un’emergenza che don Raffaele Grimaldi, per 23 anni cappellano nel carcere di Secondigliano (Napoli) e da un paio d’anni ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, conosce molto bene. Lo abbiamo intervistato.
Come è la situazione della salute in carcere?
L’emergenza sanitaria nel nostro Paese riguarda tutte le fasce deboli della società, ma negli istituti di pena è ulteriormente acuita perché la popolazione carceraria è estremamente vulnerabile. I detenuti sono realmente gli ultimi degli ultimi. I direttori dei penitenziari conoscono bene le grosse difficoltà per far venire uno specialista, per sottoporre i reclusi a visite, esami diagnostici e specialistici esterni, ricoveri e/o interventi chirurgici. Le procedure per autorizzazioni e permessi da parte dei magistrati e dei tribunali rallentano molto gli interventi sanitari e il problema si aggrava ulteriormente in presenza di detenuti in regime di alta sicurezza (41 bis). I tempi talvolta si allungano anche per mancanza di mezzi o personale per la scorta, pure in caso di interventi di emergenza.
Quali sono i numeri?
Gli istituti di pena sono in totale 198 con una presenza di circa 58mila detenuti a fronte di 50mila posti. Solo una quindicina di questi istituti dispone di un centro clinico-diagnostico, alcuni dei quali non funzionano per mancanza di personale e/o di attrezzature.
Quali le patologie più frequenti?
Malattie croniche come cancro, leucemie, diabete, Alzheimer, depressione. Il 40% dei detenuti soffre di disturbi psicologici ma si riscontrano anche gravi patologie psichiatriche. Con la chiusura degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari, ndr) circa 600 internati hanno trovato posto nelle Rems (residenze per l’applicazione delle misure di sicurezza, una trentina con 20 posti letto ciascuna. ndr), ma in queste strutture il numero dei posti è sottodimensionato e altri 450 sono in lista d’attesa: o in carcere – dove non ricevono le cure di cui avrebbero bisogno – o per strada dal momento che spesso le famiglie non li accolgono.
Collegata al disagio è la tragica realtà dei suicidi. Il dossier “Morire di carcere” di Ristretti orizzonti, aggiornato allo scorso 24 maggio, ne registra 18 nei primi cinque mesi di quest’anno e 52 nel 2017.
Sono causati da fragilità personale e/o durezza del regime carcerario. Di salute e disagio psichico si era parlato nel decimo dei 18 tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale del 2016, era emersa una grande attenzione verso il tema. Purtroppo la riforma dell’ordinamento penitenziario che avrebbe migliorato le condizioni detentive “umanizzando” tutto il sistema non è decollata e non sappiamo che cosa accadrà con il nuovo governo. Non si tratta di un provvedimento “svuota carceri”, come qualcuno sostiene, ma di un ampliamento delle misure alternative che comunque, insieme ai permessi premio, non verrebbero concesse in automatico bensì dopo un’attenta valutazione della condotta del detenuto da parte di operatori penitenziari e magistratura di sorveglianza. Una riforma necessaria: la precedente risale al 1975.
Il 1° aprile 2008 la competenza della medicina penitenziaria è stata trasferita dal ministero della Giustizia al Ssn, quindi alle Regioni. Che cosa è cambiato?
Nelle regioni più “virtuose” dal punto di vista sanitario la struttura carceraria ne ha risentito in positivo; in negativo in quelle “in affanno”. Tuttavia per visite specialistiche ed esami esterni, i tempi di attesa rimangono lunghi. Se poi i detenuti vengono nel frattempo trasferiti in istituti di altre regioni occorre ricominciare tutto daccapo perché cambiando le Asl cambiano anche le procedure. A complicare la situazione sono inoltre le continue modifiche delle norme che disciplinano l’attuazione dei diversi protocolli d’intesa con le Regioni.
Secondo lei, la società è sensibile ai diritti dei detenuti?
Il carcere è visto da molti come giusto luogo di punizione dei delinquenti e come fattore di sicurezza per la società. Oggi la gente è stanca di violenze, aggressioni, spaccio di droga. E’ impaurita e quando si parla di attenzione ai carcerati si avverte una certa resistenza. C’è chi ritiene che occorra dare la precedenza ai “buoni cittadini” perché chi ha commesso un reato, il castigo e la sofferenza in fondo se li merita. Invece l’uomo non è mai il suo errore: anche se si è macchiato di gravi crimini, conserva la sua dignità. Non possiamo avere verso chi ha sbagliato lo stesso atteggiamento che ha avuto chi ha commesso un reato. Ingiustizia chiama ingiustizia e violenza chiama violenza.
Cosa chiede alla politica?
Auspico da parte del nuovo governo apertura e attenzione al mondo del carcere, l’impegno di comprendere le problematiche dei reclusi che troppo spesso vengono considerati scarti della società. Da alcuni segnali temo che potrebbero esservi alcune chiusure, ma un conto sono i proclami, un conto quando si inizia a governare e a verificare con mano la realtà. I nostri governanti sono in fondo persone, hanno un cuore, possono anche rivedere qualche posizione. Prima di giudicare i carcerati bisognerebbe rileggerne la storia e interrogarsi sulle cause che li hanno spinti a delinquere. Quando uno è povero, senza lavoro e senza prospettive per il futuro, il rischio di delinquere, soprattutto al sud, è dietro l’angolo. Ciò che occorre sono misure di sostegno e di prevenzione, bisogna agire prima, non dopo il carcere.
Cosa può fare la Chiesa?
Noi cappellani siamo 250, nessun istituto rimane scoperto, e possiamo avvalerci della collaborazione di volontari e associazioni. La Chiesa è chiamata ad essere voce degli ultimi. Con le sue visite in momenti “forti”, i suoi gesti e le sue parole, Papa Francesco ha riacceso i riflettori su questo mondo invisibile e dimenticato dando un segnale forte anche alla politica. Durante il Giubileo le carceri hanno visto una massiccia presenza di sacerdoti. Ora i vescovi le visitano con maggiore frequenza e al loro interno associazioni e parrocchie promuovono attività. Cominciano ad entrare anche cappellani giovani, ed è importante. Di questa Chiesa sofferente e “imprigionata” dobbiamo tutti essere responsabili e farcene carico.
Giovanna Pasqualin Traversa
SIR, 18 giugno 2018