Una “nostalgia del cielo” la porta in convento, poi la via crucis della malattia. Ora, insieme alle sue onco-amiche, prega per il bisogno urgentissimo di speranza che è di tutti.
La prima volta che mi scrisse pensai a uno scherzo, si firmò Suor Chiara di Assisi. Invece no, era proprio una persona in carne e ossa! Fa servizio nella Sacrestia della Porziuncola ed è stata catturata da Gesù per quella promessa del centuplo.
Nello scambio di messaggi che ci fu, accennò alla malattia che l’aveva messa a dura prova, però me ne parlava pervasa da una strana gioia sincera. Perciò le ho chiesto di condividere qui la sua storia, e non resisto alla tentazione di anticipare due «perle» linguistiche e umane di cui mi ha fatto dono. Lo sapete che «convento» e «convenienza» hanno la stessa origine e perciò hanno un significato quasi identico? Lo sapete che esiste un intervento chirurgico chiamato «allargamento margini» (si ripulisce la zona da cui si è asportato un tumore)? E che cosa sono le prove della vita se non questo allargamento margini del cuore per ospitare un sì sempre più grande a Dio?
Cara Chiara, grazie di aver accettato la proposta di Aleteia di raccontarci la storia della vocazione e anche della malattia, che ha approfondito il senso della vocazione stessa.
Io spero che questa sia un’occasione bellissima per parlare di Lui, del Padre.
Sei Suor Chiara e vivi ad Assisi. Un destino scritto nel nome, uno scherzo audace di Dio? Come sei arrivata in convento?
Di solito si chiede sempre a una suora: «Cosa facevi prima?» e questo pone la questione in un modo che enfatizza ancora di più la rinuncia al mondo.
Ho 49 anni, sono entrata in convento quando ne avevo 19: andavo a messa la domenica, sono nata e cresciuta in una parrocchia francescana e ho succhiato fin da sempre l’insegnamento e la compagnia di Don Giussani. Tenevo in cuore quella che io ho sempre chiamato la «nostalgia del cielo», volevo rispondere al Signore nella maniera più bella possibile per quanto la mia persona ne fosse capace. Di San Francesco d’Assisi mi colpiva la sua adesione profonda a Gesù con questi due aspetti: povero e crocifisso. Dietro questa povertà e crocifissione, Francesco ha provato la gioia. È una proposta attraente.
La tua famiglia cos’ha detto della tua scelta?
Un anno prima di entrare in convento morì, all’improvviso, mio padre a soli 52 anni. Noi non avevamo mai perso nessuno, neppure un pesciolino rosso. Non avevamo idea di cosa fosse quella che Francesco chiama “sorella morte”, e fu un dolore immenso che però, inaspettatamente, abbiamo vissuto con una lucidità incredibile. Non è stato facile per mia madre fare i conti con la mia decisione di prendere i voti, mi disse: “Ma ti pare, Chiara? Vuoi andartene adesso?”.
Io ho fatto il grande passo col cuore in lacrime, perché vedere soffrire la propria mamma fa soffrire. Eppure meditavo da sempre il pensiero di quel che Gesù dice a proposito del centuplo. Sai che convento e convenienza sono parole molto simili? Ecco, parlano di qualcosa che è opportuno e ti viene incontro: mi ha sempre impressionato l’idea che fosse conveniente lasciare qualcosa per guadagnare il Signore, lasciare il noto per un ritorno di bene ignoto e più grande. Il punto davvero cruciale è che il Signore chiede di lasciare se stessi.
Cos’è per te il centuplo?
È sentirsi al centro di un amore enorme. Al mattino, prima che io mi svegli, il Signore ha già detto di me – e di tutti noi -: “Ti amo, vivi bene oggi perché sei bella e io ti voglio bene nonostante tutte le sciocchezze che farai oggi”.
Siamo tutti dentro questo abbraccio che ci rende preziosi.
Di giorno in giorno mi accorgo della quantità di spazio che c’è nel nostro cuore per accogliere chiunque.
Il secondo intervento che ho fatto per curare il mio tumore si chiamava «allargamento margini»: si ripulisce la zona che si spera non sia più tumorale. Usando una metafora si può dire che il centuplo sia un costante allargamento margini del cuore e dell’anima.
Hai introdotto il tema della tua malattia, come l’hai scoperta e cosa è successo?
Ho scoperto di avere un carcinoma mucinoso nelle cellule mammarie nel maggio 2014. Era una forma tumorale già a uno stadio abbastanza avanzato, ho fatto gli esami necessari e poi il 3 giugno sono partita per un pellegrinaggio in Terra Santa che era stato programmato da tempo.
Era la seconda volta che vedevo quei luoghi, è stato un viaggio diverso dal primo: da un certo punto di vista era come tornare a casa, però – pensando alla mia malattia – portavo in cuore questa domanda: “Signore, cosa vuoi da me?”. Sentivo anche l’alba di una risposta: quel che mi stava accadendo era una Sua richiesta per appartenergli ancora i più.
Si può dire che hai fatto la Via Crucis a Gerusalemme con una tua via crucis nel corpo …
Sì, avvertivo che era un cammino ferito in cui si giocava tutto di me; era un richiamo a vivere più a fondo la mia vocazione, non ridurla a “essere una suora che fa certi gesti quotidiani”. È stata quindi una via crucis nella Via Crucis, ma nel senso interessante del termine: l’irruzione di un imprevisto dentro il caos che può essere il cuore di un uomo.
Al tuo ritorno in Italia cosa è accaduto, come hai affrontato la malattia e le cure?
È stata tosta. La chemioterapia mi ha provocato due shock anafilattici nel giro di una settimana. È accaduto tutto a dicembre ed è stato come l’irrompere di Dio nella mia vita, per dirmi: «Sei mia!».
Mi è diventato ancora più chiaro che la vita è un dono, non tanto perché può esserci tolta da un momento all’altro, ma in modo oggettivo e positivo: nessuno al mattino chiede il permesso di aprire gli occhi, così come nessuna creatura chiede il permesso di entrare nel grembo di sua madre. È un dono.
Durante questi due shock non ho mai perso conoscenza, mi stavo accorgendo di morire e vedevo attorno a me gli infermieri che mi praticavano il massaggio cardiaco. Naturalmente non lo auguro a nessuno, ma devo però annoverarla – lo dico con grande pudore – tra le esperienze più piene di bellezza che ho avuto.
Mi accorgevo che la vita veniva da fuori, e che l’aria non voleva entrare nei polmoni. C’è stato un momento estremo in cui ho formulato questa preghiera: «Signore fa che io non muoia bestemmiandoti».
Non so spiegare perché ho detto così. Lo medito spesso.
Possiamo azzardarci a ipotizzare che sia stato un atto di affidamento totale, una sfida vinta di fronte alla tentazione del tradimento che può esserci fino all’ultimo istante di vita?
Sì, il buio della fede può arrivare fin lì. Noi siamo incredibilmente liberi e possiamo capovolgere tutto fino all’ultimo respiro che ci è dato. Ma dal quel momento ho cominciato a segnare le tappe e le date della mia degenza, scoprendo in modo sorprendente una compagnia del cielo. Ti faccio qualche esempio: il primo intervento l’ho fatto nel giorno di San Giacomo di Compostela; la prima chemioterapia l’ho cominciata nel giorno delle Stimmate di San Francesco; ho dovuto tagliare a zero i capelli ed è accaduto nella festa di San Francesco; ho potuto rimettere il velo il 13 maggio, nel giorno della Madonna di Fatima.
A proposito di compagnia, mi racconti chi hai incontrato sulla strada della malattia (e della guarigione)?
Ho conosciuto medici e pazienti che sono diventati amici, perciò questa malattia, oltre ad essere un percorso di sofferenza, è un’esperienza che non posso considerare solo negativa, perché ho incontrato tanta benevolenza.
Ho visto anche tante donne impazzire dentro la malattia, famiglie spaccarsi per i pesi insopportabili da portare. Anche in relazione a ciò, ho avuto l’idea di proporre a tutte quelle che io chiamo onco-amiche una Messa da celebrare di tanto in tanto a Santa Maria degli Angeli, per affidare chi fa le cure, i loro parenti e chi è già in Cielo.
È buffo da guardare il nostro gruppo, siamo l’armata Brancaleone: partecipa gente che non è mai venuta messa, gente che parla al sacerdote durante l’omelia. Guardando questa strana compagnia, mi accorgo che c’è in tutti un bisogno urgentissimo di speranza, di un più che non può venire da noi e dalle nostre capacità. Cadiamo tutti in ginocchio a chiedere aiuto a Chi ha in mano le redini della nostra vita e le tiene, per portarci a compimento.
Annalisa Teggi
Aleteia, 15 giugno 2018